Recensioni / Selve d'amore

Il titolo di questo terzo tempo del ciclo Costumi degli italiani evoca in prima battuta le Selve d'amore di Lorenzo de' Medici, e fa pensare a un "canto a lato" dell'autore dell'Orlando innamorato raccontato in prosa (Einaudi 1994) offerto alle fantasticazioni del lettore. I quattro racconti sembrano uscire – festosi e un po' ignari – dall'epigrafe d'apertura allusiva di un congedo («Addio storie, che vita! L'Autore») e subito inanellano situazioni, personaggi, abbozzi di storie. Il filo conduttore è l'amore inseguito, di apparizione in apparizione, di caso in caso. La madre è il perno del primo racconto, è dotata di «molta arte e spirito di pazienza»; attorno alle sue onde magnetiche duellano un marito geloso del figlio maggiore e il medesimo figlio. Da lei si dipanano le figure delle sue clienti e amiche, come la signora Giunone e la signora Gazzi (che attira irresistibili passaggi danteschi), con le quali stava «a far chiacchiere, con l'aria di donne senza padroni», nella comune consapevolezza di dover brigare fino alla tomba con gli uomini. È un mondo femminile non poi così distante da quello meneghelliano di Libera nos a malo in cui donne sfinite e sfruttate sanno essere ben fiere e vigorosamente capaci di tener a bada i loro uomini. La ricerca del protagonista («sempre disperso nel buio delle selve d'amore») incrocia giovani insegnanti («capelli al vento, faccia onesta»), vecchie zie, cuoche e grassocce signore.

Il tono giocoso passa anche per i nomi, che si affastellano allusivi nel secondo racconto: l'avvocato Annoiati, l'assessore Rovina, il sindaco Cagnotto, il prefetto Imbrogli, il tipografo Catenacci, la contessa Tinti-Altoforni, la marchesa Cecchi-Mammullà, la signora Bachiocchi, la signora Veratti circondano lo strampalato investigatore privato Muccinelli (sicuramente un personaggio che non uscirà di memoria) e fanno addentrare il lettore in selve sempre più intricate (e incantate?).

Seguono le vicende di Margherita Marcocesa dagli umori tempestosi, dell'amante di suo marito, la "corputa" ostetrica Bugazzi: fanno corona alla sbiadita signorina Violante, ricca e emancipata che sposerà il figlio Marcocesa, provocando fatalistiche riconciliazioni e un finale spiazzante.

Nell'ultimo racconto, La notte, il tono sembra sensibilmente cambiare: certo il dialogo di Pucci col nonno (già di suo affetto da demenza senile) che con serena franchezza lo riconosce come idiota («noi ci capiamo anche se sei un idiota, vero?») nella sua comica profondità è irresistibile. Richiama altre parentele, perché questi figuranti o comparse o personaggi sono poi figli e nipotini di Guizzardi o di Garibaldi o fratelli di altri "pascolanti" come il giovane Zoffi che non hanno mai smesso di popolare le storie di Celati: ne condividono tic, agnizioni improvvise, un senso del ritmo dell'esistenza cadenzato nelle diverse stagioni di scrittura con sapienza davvero grande. Forse solo chi si è speso su più tavoli come Celati (e penso alle traduzioni, in particolare a quella dell'Ulisse di Joyce) sa accordare tempi verbali e scansioni sintattiche in generale, le parole e i loro suoni accuratamente provati, con questa studiata naturalezza.

In La notte la madre di Pucci rimane seduta ad aspettare l'alba e la pagina è attraversata da una strana malinconia che ci fa guardare con occhio diverso le pagine precedenti. Ci accorgiamo che queste storie sono solo visioni («Può darsi che sia una visione che non c'entra col mio racconto, ma mi è venuta in mente così»); oppure notiamo che si interrompono all'improvviso lasciando il lettore interdetto sul come proseguire: «A dire la verità, non so altro di questa storia e devo fermarmi qui. Mi dispiace molto per i lettori». Oppure ancora finiscono in modo strano, come succede al signor Marcocesa che inventava storie per non arenarsi «nelle paludi nell'umanità media» e finisce, con la benedizione del narratore («Succede a tanti») a chiedere la carità accucciato su un marciapiede. La notte nella sua seconda parte ha un tono alto e solenne, fa pensare a un testamento letterario e esistenziale: la bella notte è un buco vuoto, in cui precipitano dissolvendosi paure e desideri «e il cuore è finalmente sazio». Fa meditare sui racconti che non hanno orari ma nascono dai «risucchi» e la «notte-buco nel tempo» li abbraccia e li tiene insieme nel loro ripetersi. Potrebbe concludersi qui con quella bellissima immagine dei desideri che vengono alla superficie e si spandono nell'aria perché nessuno si senta più estraneo. Ma il sogno della signora Pucci dà un'ultima scossa. E le parole del matto Quaglia, sul finire del racconto, chiariscono quell'addio semiserio che apriva il volume: «Ah, qui siamo moltissimi, tutti matti! E voi, là fuori, siete molti? Tutti matti anche voi?». Come si fa a staccarsi da queste storie?