Recensioni / Stefano Ricci nella selva oscura

La storia dell'Orso, grosso volume meritoriamente edito da Quodlibet, chiede un'attenzione particolare nel quadro dei libri per immagini – per grandi o per piccoli che siano, o a mezza via come succede in molti graphic novel e in molti libri, per esempio quelli di orecchioacerbo. È decisamente per grandi, e ne colpiscono molte cose. Si tratta di immagini ognuna delle quali copre due pagine, in un bianco e nero virato al giallino, accompagnate non sempre da didascalie in un maiuscoletto corpo minore, in alto sopra o in basso sotto l'immagine, ma dialoghi abbastanza fitti si intrecciano nelle immagini, scanditi in sequenze. E le parole contano molto. Però raccontano, per una gran parte del libro, una storia che col libro sembra non entrarci. Solo a un terzo circa del volume, due storie si intrecciano, mentre una terza è in agguato, che avrà anch'essa un ruolo importante in questa sorta di romanzo fortemente onirico e simbolico. Lo sfondo di tutte o quasi le immagini è un bosco, che è infine la magica foresta delle fiabe, là dove realtà e fantasia si mescolano, ma anche dove hanno origine gli incubi, e tra gli incubi l'esperienza delle prove, che portano indirettamente alla conoscenza.

Le tre storie sono, essenzialmente, quella della caccia all'orso Bruno colpevole di uccidere pecore – un fatto vero dei primi anni del secolo, sui monti a cavallo tra Slovenia, Austria, Germania, Italia, che colpì l'immaginazione animalista – quella di una caccia all'uomo, o meglio del peregrinare di uomini in fuga – la famiglia stessa da cui Ricci proviene, fascista, nei giorni tragici del 1945, tra Emilia e Germania – e infine, da legame, un altro girovagare ma con destinazioni precise, quello di un'ambulanza notturna sulla quale Ricci lavorò da semi-volontario quando aveva vent'anni. Siccome Ricci vive oggi, con la sua compagna Anke Feuchtenberg, in riva al Baltico dalle parti di Amburgo, e si muove assiduamente attraversando boschi, lo sfondo ha il vantaggio di impressioni forte e continuate. Ma i personaggi che si dipartono dai suoi sogni, che li popolano, e che egli traduce in figure definite e forti, non sono mai "veri" uomini o "veri" animali, sono ibridi, come potevano esserlo quelli delle passate mitologie e a maggior ragione quelli delle fiabe, in particolare nordiche, i Grimm. L'orso Bruno ha qualcosa di umano, il giovane portantino volontario che è l'alter ego dell'autore ha qualcosa di animale, in particolare le orecchie di coniglio, e il coniglio sembra essere non da adesso l'animale-feticcio di Ricci; ma addirittura la figura finale che – rappresentata anche nel piccolo album di fotografie che chiude il volume e indica riferimenti e suggestioni concreti, ben reali – riguarda un enorme fungo, che il protagonista scopre nella foresta e si carica sulle spalle, e che è un qualcosa dove nella realtà si intridono elementi vegetali ed elementi animali, e le mutazioni antiche supportano le paure di mutazioni recenti, da cinema horror.

C'è una via di uscita da questo bosco? Non c`è – se il finale è questo del fungo.C'è una spiegazione? Non c'è, anche se Ricci afferma, in chiusura, di aver compreso, ma non dice di avere sciolto, più di un enigma del suo inconscio disegnando La storia dell'Orso. E la figura femminile (direttamente Anke, chiamata Stellina nel racconto scritto) appare come una Beatrice che assiste questa traversata della "selva oscura" da lontano e da vicino. La complessità e ricchezza di questo romanzo visivo che si colloca dentro la storia dei nuovi modi di narrare che si è soliti chiamare, superficialmente, post-moderni, vengono dall'insieme di elementi che sembrano tirare al nodo, giunti sin qui dal lavoro precedente di Ricci. Ma anche dalla cultura profonda di Ricci in campi solitamente non molto frequentati dai nostri narratori per immagini, una cultura che predilige il nord al sud, la notte al giorno, l'immaginario al reale, il bosco alla pianura, e che vede la città come città-bosco, attraversata dall'ambulanza faticosamente salvifica.

Dentro la fascinazione del nord, c'è certamente la fascinazione dell'espressionismo figurativo, costante in Ricci, che mi sembra rimandare in questo caso a un autore-chiave come Alfred Kubin (L'altra parte!) e a molti film tra Lang e Murnau, al teatro del primo Brecht e di Toller, ma anche al bianco e nero realistico di Kathe Kollwitz e di Frans Masereel e di un regista come Piel Jutzi, anche se realistico e spinto verso la "nuova oggettività". È un campo che andrebbe esplorato, per la serpeggiante rinascenza di suggestioni weimariane (anche nell'uso del colore) nel campo del graphic novel, della vignetta satirica e del cinema, e anche, in misura incerta e minore, in quello del teatro e della pittura in questi anni che sono già lontani dal dibattito mediocre di qualche anno fa che confrontava la nostra situazione socio-politica con quella dell'effimera Repubblica durata tra la fine della guerra e l'avvento del nazismo. Il discorso si allarga, e si complica, perché riguarda, simile e incombente nel nostro presente, la foresta in cui siamo impigliati, e dovrebbe riguardare la ricerca di una via di sbocco, verso altre luci e certezze o quantomeno verso nuove aperture, ricerche, scoperte, direzioni.