Recensioni / Manganelli. Viola del desiderio, la mia voce è sporca di rossetto

Ma un'altra provvidenziale occasione di incrociare un testo di Manganelli ci viene in questi giorni dalla ripubblicazione, a più di venticinque anni dalla prima edizione, dell'Antologia privata allestita dallo scrittore stesso nel 1989, poco prima di morire (Quodlibet, pp. 276, 16,50). Già partendo da una zona di testo marginale qual è il risvolto di copertina si ritrova la zampata del leone: è lo stesso Manganelli a paragonare questa autoselezione (che include anche scritti giornalistici come le «laboriose inezie» di recensioni e corsivi) a un banchetto cannibalesco, da tragedia degli Atridi: uno squartamento della cui parzialità, ambivalenza e «grazia rancorosa» l'autore è il primo a godere. Se c'è un principio costruttivo in
questa satura lanx dedotta dallo scrittore con deliziata ferocia dal corpo della propria opera, andrà rintracciato nelle varie, molteplici e multiformi manifestazioni dello scrivere: uno scrivere praticato in controluce, nell'obliquità, come da un giocoliere e negromante impegnato nel costituirsi di un soggetto solo come manifestazione linguistica sulla pagina, «voce trascritta» che adibisce uno spazio di pensiero attorno a sé, incurante del «qualcosa da dire» eppure conscia della necessità indiretta di verbalizzare qualcosa di «vergognosamente importante». Tramite l'emblema,
l'enigma, l'ombra, lo stemma. E una volta decollati dalle evoluzioni barocche e dalla sgarbata preziosità di Hilarotragoedia e Nuovo commento, si potranno esplorare le zone meno esibite della sua opera. La segreta ammirazione manganelliana per la qualità asemantica della musica, che non è costretta a farsi schiava del significato, la ritroveremo in una «recensione» di Dante che rilegge la Commedia ex novo, come fosse una partitura per orchestra; il suo positivo aborrimento delle pedestri «idee» che tanto emozionano i «badilanti della letteratura» occhieggia dalle pagine di un testo sulla «gioia teoretica» delle Operette morali; le seduzioni della letteratura come menzogna, della naturalezza architettata al culmine dell'artificio, si troveranno nella distrazione voluta, nel corteggiare l'italiano come fosse una lingua morta e straniera («impreciso» è spesso, come sa chi è abituato agli ossimori manganelliani, un termine virtuoso).

Il furore geometrico di Manganelli manda in pezzi le distinzioni binarie: l'astrazione può essere percorsa dalle più sfrenate energie sensuali, il solitario è un insorto, un evocatore di voci, tutte le nostre disperazioni si riversano in un gioco, come può essere quello «infernico» della letteratura, le parole diventano creature dotate di una propria vita, e auscultano l'«inesistere». Antologia privata è la consacrazione blasfematoria dell'atto del leggere e dello scrivere come sottilmente inopportuno, clandestino, sfrenatamente libero da ogni catechismo. E la scrittura è una forma di sovranità pericolosa, ferita e felice, che dà volto all'impossibile. «Si vorrebbe qualche cosa ancora», scrive Manganelli parlando di Tozzi. «Ma una antologia non è infinita: deve eccitare e deludere».