Recensioni / Il museo come limpida superficie cromatica

Atipica per molti versi, l'arte di Ruggero Savinio non può non inquietare i facili cultori dell'arte contemporanea. E atipica è la sede della mostra a lui dedicata, il Forte Malatesta di Ascoli Piceno, un'architettura militare ricomposta alla metà del XVI secolo da Antonio da Sangallo il Giovane per Paolo III Farnese sulle macerie del fortilizio che il Galeotto Malatesta aveva costruito a picco sul fiume Castellano: un luogo arcigno e torvo trasformato in complesso rinascimentale attraverso l'apertura di spazi armoniosi e ariosi come la grande sala centrale a volta della ex chiesa della Madonna del Lago. E sorprendente è anche il curatore della mostra, uno scrittore schivo, per non dire burbero e arcigno, come Clio Pizzingrilli, autore di un saggio ricco di suggestioni letterarie e filosofiche, frutto di un inatteso incantamento di fronte all'opera di Savinio; così come ex-lege è l'introduzione di Giorgio Agamben al piccolo libro che funge da catalogo, Fabula picta (Quodlibet, pp. 136, euro 18,00). Scrive Agamben che «Savinio ha affrontato il problema che l'arte contemporanea ha costantemente eluso: quello dell'impossibilità e della necessità della figura nel nostro tempo. A questo pittore, insieme sobriamente ctonio e severamente celeste, è toccato in sorte di essere, per questo, il più contemporaneo fra i contemporanei», lasciando intendere che l'arte sussiste unicamente nel confronto con la storia dell'arte. Come nota ancora Agamben, Savinio ha spesso citato quali suoi riferimenti lettere e testi di Hans Von Marées, autore del ciclo decorativo per la Stazione Zoologica Anton Dohrn (Napoli, 1873), che diede sostanza pittorica alle teorie dell'amico scultore Adolf von Hildebrand sulla distinzione tra «visione vicina e visione lontana» che aprì nuovi orizzonti all'arte moderna: la prima propria del procedere scientifico e usuale, la seconda propria dell'artista. Non è un caso che Savinio negli anni, pur marcando la propria distanza dalla pittura postmoderna, abbia tenuto un costante atteggiamento «museale» che gli ha consentito un continuo dialogo coi grandi maestri senza preclusioni ideologiche. Nella nota autobiografica Savinio cita, infatti, la pittura greco-romana, Tiziano e Rembrandt fino a includere i romantici Piccio, Fontanesi e Ranzoni, senza dimenticare gli inevitabili confronti con i «Dioscuri» di famiglia (a questo proposito si veda l'Autoritratto con Epicuro del 2011-2014). Non mancano inoltre nella sua produzione veri e propri dialoghi con capolavori di Beccafumi, Raffaello e Guido Reni: la Fanciulla con corona del 2000 è fra le tele più memorabili in mostra. Ricchissimo di cultura figurativa non ha però tratto suggerimenti compositivi dai grandi maestri se non il conforto di un linguaggio poetico, sfrondato da ogni eccesso barocco. La posizione «iconica» avvicina Savinio anche a esperienze pittoriche più contemporanee, ma, per le pennellate grasse e accostate, un nome torna spesso alla mente visitando la mostra: quello di Luigi Bartolini, il Bartolini pittore (e non incisore), con cui Savinio condivide la pacata scansione delle superfici cromatiche, limpide e severamente circoscritte. Ed è dunque più che opportuna questa collocazione marchigiana dell'evento, non solo e non tanto perché marchigiani sono sia Pizzingrilli che Bartolini, e anche altri riferimenti dell'artista (il quale ha esposto non a caso più di una volta nella Galleria Centofiorini di Civitanova Alta), ma piuttosto perché ci si trova sull'Adriatico, in un ex fortilizio giustamente denominato dagli ascolani «cassero a mare», perché rivolto verso Oriente e la Grecia, dunque verso le più intime origini culturali e familiari di Ruggero Savinio.
In un vecchio scritto satirico, Giorgio Manganelli si domandava «Esiste Ascoli Piceno?»; aveva ricevuto, infatti, una sollecitazione da un letterato schivo e appartato, proprio come Pizzingrilli. La mostra di Savinio è la risposta affermativa a quella domanda: un'occasione per ripercorrere i più antichi e genuini sentieri della pittura italiana, tenendo sempre presente la chiosa che ancora Manganelli volle dedicare all'altro Savino, Alberto: «L'ora della scoperta del senso del disegno coincide con l'ora del riconoscimento della morte e insieme dell'immortalità».