Recensioni / Giani Stuparich, la lingua scarna nella sordida vita di trincea

A distanza di molti armi dalla precedente edizione nei Nuovi Coralli Einaudi del 1978, torna in libreria Guerra del '15 di Giani Stuparich, penetrante memoria della Prima Guerra Mondiale, ora opportunamente riproposta da Quodlibet (con una precisa postfazione di Giuseppe Sandrini, pp. 195, ?17,00). Il testo, uscito nel 1930, deriva da un «taccuino tutto sporco di rosso terriccio del Carso», tenuto indosso al fronte, per registrare, con note brevi e nervose, le vicende belliche.
Come ha spiegato memorabilmente Marc Bloch nel suo La guerra e le false notizie (da poco ristampato da Fazi), il soldato non ha coscienza del quadro in cui si inserisce il suo terribile presente, fatto di trincee fetide e di una sequenza disperata di attacchi, secondo la micidiale «strategia Cadorna». In questo deserto di informazioni, il mito divampa, come ha dimostrato in modo altrettanto definitivo il maestro del gotico inglese Arthur Machen con il classico Gli angeli di Mons (da poco proposto in una efficace traduzione di Capuano, Mattioli 1885, euro 9,90). In questo racconto l'autore immaginava che i tedeschi venissero sgominati da San Giorgio alla testa degli arcieri di Hagincourt. Molti soldati, dopo la lettura, si affannarono a confermare la visione, scrivendo ai giornali effusive testimonianze. La prosa di Stuparich non corteggia visioni: è scabra, tagliente, porta in sé, nel sapiente montaggio dei frammenti, la lezione della «Voce», la rivista su cui aveva fatto i suoi esordi scrivendo di vicende della politica slava. L'autore era partito insieme all'amarissimo fratello Carlo e all'amico di sempre Scipio Slataper, dopo aver discusso una brillante tesi in letteratura italiana su Nicolò Machiavelli. Il viaggio in treno, inaugurato a Roma, tra promesse e pianti, era sotto il segno dei libri, di cui «avevano rimpinzato lo zaino», salvo doverli ovviamente abbandonare al momento dell'arrivo nel teatro delle operazioni. Guerra del '15 per esplicito intento vuole mantenere «intero tutto il carattere d'annotazioni fatte sul momento, di giorno in giorno, anzi d'ora in ora, da un semplice gregario, che riproduceva soggettivamente, sotto la prima impressione, tutto ciò che udiva o vedeva o sentiva». La cronaca di un momento di esistenza convulso (lo scrittore aveva peraltro avuto la medaglia d'oro al valore) è dunque anche il filo del debito di memoria, ín relazione al fratello e all'amico, morti in battaglia, di cui curerà le opere e a lungo scriverà nel corso di tutta la sua esistenza.

Dopo La nazione czeca, testo di intervento politico dedicato a Prezzolini, uscito nel 1915 mentre combatteva sul Carso, nel 1924 uscirono infatti gli appassionati Colloqui col fratello. Italo Svevo affermò che questo volume, di grande intensità emotiva, «pareva un tempio».
Qui invece gli aspetti più cupi, i più sordidi, della vita di trincea, vanno di pari passo alla incisiva sintesi dell'alienazione nel combattimento, quando «è doloroso accorgersi che l'anima non brilla più negli occhi di nessuno».