Recensioni / «Discussioni» franche negli anni di Stalin

Fortini, Cases, Ferrarotti tra gli autori che dal ’49 al ’53 fecero sentire le loro voci contro le «verità» di partito.

Fin dove può spingersi l'interesse politico: an­che quello della propria parte, della parte "giusta", che si propone di migliorare la vita sociale, e forse ci riesce? Puo prevalere sully verita sto­rica e scientifica? Può dispor­re della vita, della libertà, del­l'onore degli individui?
Oggi sembra ovvio rispon­dere: no. Fino a ieri però que­sta risposta non era ovvia. Ci fu anzi un tempo, vicinissimo su scala storica, in cui era ov­vio il contrario: l'interesse poli­tico, quando è l'interesse del Partito, della Classe operaia, dello Stato socialista, non solo può ma deve subordinare a se stesso ogni altro valore. Anche la verità, anche la vita, anche la libertà e l'onore di chiun­que, compresi, anzi, primi fra tutti i propri dirigenti, i militan­ti, gli Eroi della Rivoluzione.
È il tempo dominato, nel campo comunista, dalla figu­ra di Stalin. Un tempo che crediamo di conoscere, ma che si sta allontanando così velocemente che rischia di di­ventare incomprensibile. Su quegli anni comincia a calare una nebbia che occupa ogni differenza sotto un'uniforme patina grigia. Capire le diffe­renze è invece l'unica strada per conservare un'immagine viva, reale del passato.
Ci aiuta a farlo un bel li­bro. L'editore Quodlibet di Macerata (via Padre Matteo Ricci, 108), che cura tra l'al­tro le pubblicazioni del Cen­tro studi Franco Fortini di Sie­na, ristampa integralmente «Discussioni», una rivistina diffusa a Milano in poche co­pie tra il 1949 e il '53. I primi numeri erano semplici fogli battuti a macchina in più co­pie con la carta carbone. Poi divenne un ciclostilato. Su di essa scrissero alcuni degli in­tellettuali di sinistra più seri e liberi di quelli e dei nostri anni. L'ideatore fu Delfino In­solera (1920-87), gli animato­ri, insieme a lui, soprattutto Roberto Guiducci (1923-97) e Renato Solmi. Vi scrissero, tra gli altri, Claudio Pavone e Giulio Preti, Luciano Amodio e Sergio Caprioglio, Fulvio Papi e Franco Momigliano. Alcuni, non certo dei minori, hanno scritto e scrivono sul Sole-24 Ore: Cesare Cases, Franco Ferrarotti, Franco For­tini (1917-94).
Ma non è questo il punto. Il punto è piuttosto che in quegli anni in cui per un in­tellettuale di sinistra dissenti­re dalla verità ufficiale di Par­tito era quasi impossibile - come testimonia Vittorio Foa - questi intellettuali af­frontarono pubblicamente i problemi fondamentali, teori­ci e politici, della sinistra con spirito di libertà.
Le parole di Foa ci permet­tono di capire la dura sostanza di frasi apparentemente inno­cue. Come questa: «Non si può comprendere il nostro la­voro, se non si tiene conto del­la necessità di recupero, di ri­pensamento e di critica, a parti­re dal momento in cui fu ben chiaro che il dogmatismo ideo­logico dominante era irrime­diabilmente in un vicolo cie­co» (Roberto Guiducci, genna­io 1951). O questa: «La tesi della partitarietà della cultura va serenamente ma fermamen­te combattuta», perché «pre­suppone la più radicale diffi­denza nei confronti dello svi­luppo autonomo di una cultura progressiva, e quindi la neces­sità di guidarla, dirigerla, sor­vegliarla a ogni passo» (Rena­to Solmi, maggio 1951).
«Discussioni» (edizione in­tegrale a cura di Renato Solmi, pagg. 400, L. 48.000) ini­zia con una densa «Testimonianza personale in luogo di introduzione» di Solmi, prose­gue con i primi dibattiti sulla violenza, la «storicità della scienza», la bomba atomica, continua con approfondite di­scussioni sui fondamenti teori­ci del marxismo, l'Urss, la Jugoslavia, la Spagna, l'uto­pia, il «metodo dialettico». Molti contributi sono d'inte­resse non solo storico ma at­tuale, di valore perenne. Co­me i due da cui sono tratte le frasi citate; «Politicità e parti­tarietà della cultura» di Sol­mi, un vero manifesto, e «Pun­to di vista» di Guiducci.
Nell'aprile 1953 Fortini de­nuncia, nel bellissimo «Chi non spiega è responsabile» (poi ripubblicato in Dieci inver­ni) il presunto «complotto dei medici a Mosca»; e anche l'«assenza di democrazia politi­ca nei partiti del proletariato», la «sistematica mascheratura e soppressione della discussione politica», «la preordinata iden­tificazione di opposizione e tra­dimento». Parole chiare e lun­gimiranti, che resteranno vali­de per i decenni a venire; fino al maoismo e oltre.
Cesare Cases - che pole­mizzò allora con Guiducci e Solmi su vari argomenti teori­ci, come il rapporto fra struttu­ra e sovrastruttura, sostenendo l'ortodossia marxista con intel­ligenza e lucidità (in seguito avrebbe criticato Guiducci nel brillante pamphlet Marxismo e neopositivismo) - ricorda oggi con simpatia le loro posi­zioni «confuse»: «In politica avevano ragione loro. Nella te­oria avevano le idee confuse, certo. Ma era giusto che lo fossero. Il loro disordine ideo­logico mi spaventava, ma mi piaceva polemizzare con loro. In anni in cui tutto era chiuso a "Discussioni" si respirava aria di libertà».
Rileggendo quei contributi un carattere emerge sopra ogni altro: la franchezza. Su quel foglio si poteva parlare di tutto con sincerità. Anche per­ché la sua diffusione era così scarsa? Certo. Lo leggevano, in fondo, gli stessi che lo scri­vevano: «Un bollettino desti­nato a qualche decina di cono­scenti» ricorda Fortini nella «testimonianza» che chiude il volume insieme a quelle di Guiducci, Amodio, Caprioglio e altri. Ma subito rivendica con orgoglio: «Ci erano chiare la necessità e l'inevitabilità di una crisi dello stalinismo». Era poco? Basterebbe la testi­monianza di Foa a dimostrare che non e così.

Foa: che dramma la cultura del sospetto.
Ricordo gli anni tra il 1949 e il ’51 come i più neri della sinistra, come il trionfo di uno stalinismo brutale, che pesava sul Partito socialista non meno che sul Partito comunista. L'allineamento alla politica e alle parole d'ordine del­l'Urss era assoluto, le possibilità di dis­senso quasi nulle. Entrato nel Partito socialista nel '48, insieme a Riccardo Lombardi (entram­bi venivamo dal Partito d'azione), su una linea politi­ca di autonomia dal Partito comunista, fui subito spinto dal bieco dogmatismo che allora do­minava il partito, diretto da Pietro Nenni, Rodolfo Morandi e Giusto Tolloi, a cercare spazio nel sindaca­to. La Cgil di Di Vittorio era un'al­tra cosa».
Chi parla è Vittorio Foa, uno dei grandi vecchi della sinistra, che ci appaiono di giorno in giorno più grandi. Ebreo torinese, intellettua­le, militante antifascista condanna­to a lunghi anni di carcere, dirigen­te politico e sindacale, studioso del­la società e della storia italiana, testimone impareggiabile, Foa non fu lettore di «Discussioni». La rivi­sta circolava (a Milano, tra l'altro, e non a Roma) in un numero trop­po ristretto di copie. Ne ricorda però la presenza, ne conobbe perso­nalmente quasi tutti i redattori e collaboratori, e soprattutto può rie­vocare fedelmente il clima politico e culturale in cui fu scritta, confer­mare quanto fosse difficile per un in­tellettuale che non intendesse farsi emarginare dai par­titi della sinistra, né perdere contatto con la loro base so­ciale, manifestare apertamente il suo dissenso dalle posizioni staliniane. «Erano gli anni tragici della cultu­ra del sospetto - continua Foa - che travolsero Lelio Basso, emargi­nato con l'accusa di "trotzkismo". Personalmente non credo di aver fatto concessioni esplicite allo stali­nismo. Ma neppure presi una ,posi­zione esplicita contro. Perché? È dif­ficile, forse, capirlo oggi per un gio­vane. Anche tra gli antistalinisti pre­valeva il timore di essere risucchiati dal campo avverso, di essere "usati" dal nemico di classe, di finire arruo­lati tra le forte schierate con gli Stati Uniti contro la "patria del so­cialismo". Ancora di più contava il timore di essere separati dalla no­stra base sociale, dagli operai e dai militanti che credevano nelle parole d'ordine dei partiti di sinistra».
Stalin stesso si presentava con un doppio volto: il dittatore colpe­vole di feroci delitti, in gran parte già noti, ma anche il capo di Stato che aveva cementato l'alleanza anti­fascista internazionale, avallato la svolta democratica dei comunisti italiani. «Tanto che quando, nel 1953, Stalin morì - ricorda Foa - non vivemmo quell'evento co­me una liberazione, ma con preoc­cupazione. Temevamo che venisse meno un elemento essenziale di sta­bilità. Stalin aveva pur detto, l’an­no prima, che una nuova guerra mondiale "non era inevitabile"».
L'anno prima, il 1952, è anche l'anno della condanna a morte, im­posta personalmente da Stalin, di decine di intellettuali e medici ebrei, dopo un processo farsa che li accusò di un fantomatico «complot­to». «La vissi con un'angoscia che non potevo esprimere. "Questa è l'anticamera di una nuova persecu­zione" pensavo. Ma, se l'avessi det­to, non sarei stato creduto. Si, la sinistra di quegli anni era prigionie­ra. Solo il sindacato riuscì a difende­re un pluralismo sociale che, negli anni del Centro-sinistra, sarebbe fi­nalmente diventato, anche plurali­smo politico».