Recensioni / Manganelli e quei figli-libri da strapazzare e svergognare

«Una antologia è una legittima strage, una carneficina vista con favore dalle autorità civili e religiose, un massacro commercialmente attendibile, infine un mezzo per cui il così detto autore può dar sfogo alla parte più cruda della sua ambivalenza verso quei libri, di cui egli sa meno di chiunque altro». È una dissacrante e paradossale definizione di antologia (raccogliere i testi per distruggerli con compiaciuto sadismo!) ma soprattutto un biglietto da visita. Chi scrive queste righe è Giorgio Manganelli, nella premessa all'Antologia privata edita nel 1989 e ristampata da Quodlibet Editore nel 2015 a un quarto di secolo dalla sua scomparsa. Maturato nel solco delle neovanguardie degli Anni Sessanta e della rivista "Il Menabò" diretta da Calvino e Vittorini, Manganelli si distingue subito per la sorprendente originalità della scrittura: coltissima, superbamente ironica, tragica in filigrana – il vuoto, in particolare la morte nelle sue fogge carnevalesche e barocche, nella sua vocazione di «balistica discenditiva», è forse il pedale dell'opera intera – e anarchica per vocazione, ma soprattutto aliena da quell'ideologismo talvolta sopra le righe che spesso ha accompagnato il lavoro dei suoi compagni di strada.

Ricordando nella premessa citata il mito di Tieste che divora i propri figli, Manganelli allude a se stesso, come dire a una personalità profonda edipica e tortuosamente amletica. I figli sono i libri, e i libri scritti vanno svergognati, percossi, e infine fatti deflagrare attraverso il gioco crudele di un padre dispotico. L'autore, insomma, è il creatore e padrone assoluto della realtà chiamata in causa (illusionistica per essenza) e della scrittura che, imprimendovi forma e stile, istituisce ciò che di fatto rappresenta il "vero" reale. Con piglio pseudo-autobiografico, in Hilarotragoedia (1964) l'autore dà vita alla figura paterna del Re e di quella materna della Strega fino a identificarsi col personaggio inenarrabile generato dalla loro fusione: «Un Mostro che mangia un Bambino, una Strega che mangia il Mostro, un Bambino che mangia…». L'io incarnazione del padre onnipotente ritorna con vigore nelle pagine araldiche di Agli déi ulteriori (1972): «Che io sia Re, mi pare sia cosa da non dubitare. V'è in me un modo regale di pensare, di opinare, di fantasticare, che non finisce di stupirmi e di allietarmi. Non riesco a pensare a cose umili e povere; ogni cosa deve avere un nome, collocarsi in una gerarchia, incedere o strisciare, ma in modo emblematico». E ancora: «Può dunque la simulata concretezza degli oggetti nati dalla mia mente esaurire l'arroganza del mio assoluto ed eterno potere?».

Ci si chiede sovente quale sia il genere privilegiato da Manganelli. Si sono sprecate definizioni al riguardo. La più convincente, escogitata per Hilarotragoedia ma estendibile a molte altre opere, esce dalla penna di Italo Calvino, suo grande ammiratore: «Se la forma del libro è quella del trattato, lo spazio che esso viene costruendo intorno a noi è quello d'un teatro, teatro d'una architettura composita tra il rinascimentale e il barocco». Teatralità, narrazione fiabesca e surreale (si veda, per un confronto, il secentesco Pentamerone di Basile) e iscrizione dell'insieme in una cosmografia tanto sontuosa e investita maniacalmente dalla parola quanto tesa a esorcizzare i vuoti e la presunta illeggibilità dell'universo: sembra di ripercorrere quel capitolo inquieto della letteratura italiana che da Giordano Bruno porta al Tesauro e al Marino. Uno stilista puro, uno scrittore ipersofisticato allora, ritagliato per un pubblico di soli scrittori? Parrebbe di sì a leggere, nel Nuovo commento (1969), quelle numerose pagine che, tramite filologismi capziosi e filosofemi, tentano di catturare natura e senso, pensate, del punto e virgola. Esilarante apologia dell'inutile, qualcuno dirà, potenziata da un impiego iperbolico degli artifici retorici.

In realtà, Manganelli non fa che aggiungere la propria voce serpentina al serrato dibattito novecentesco sulla crisi di senso e di funzione della letteratura. In La letteratura come menzogna (1967) l'autore controbatte energicamente ogni interpretazione dell'agire letterario in chiave utilitaristica e moralistica. L'opera, prodotto della finzione, è una felice assurdità, un'utopia e, «come è proprio delle utopie, essa è infantile, irritante, sgomentevole». Ai cosiddetti messaggi edificanti (quelli sì menzogneri) Manganelli preferisce, la riscrittura di un capolavoro per l'infanzia: Pinocchio, un libro parallelo. Metaletteratura, ammettiamolo, ma quanto creativa!