Evviva gli anniversari! Se non fosse per il centenario della prima
guerra mondiale, quando mai avrei letto Guerra del ’15 di Giani
Stuparich? Il diario di trincea dello scrittore triestino non veniva
ripubblicato da 35 anni, ora ci ha pensato Quodlibet che al merito della
riedizione aggiunge quello della copertina: una foto strepitosamente
ungarettiana con protagonista il Carso come può immaginarselo il lettore
di Allegria di naufragi e quindi sassoso e ostile. Una copertina che, a
saperla intendere, fornisce un’indicazione critica, un’idea di
Stuparich come di un Ungaretti in prosa: altrettanto sobrio, appena meno
laconico, forse anche meno sentimentale. Lo spazio e il tempo sono i
medesimi, il fronte isontino durante la grande guerra, pochi chilometri
quadrati che in breve lasso di tempo ingurgitano la meglio gioventù
dell’epoca.
Il diario di Stuparich copre un periodo ancor più breve, poco più di due
mesi, giusto la prima fase del conflitto. Come mai? Forse per non
mettere nero su bianco la morte dell’amico Scipio Slataper e poi quella
dell’amatissimo fratello Carlo, suicidatosi per non cadere prigioniero
degli austriaci che lo avrebbero volentieri impiccato come Cesare
Battisti (gli italiani irredenti che si arruolavano nell’esercito
italiano venivano accusati di alto tradimento). O forse perché Stuparich
in seguito viene nominato ufficiale e si merita una medaglia d’oro. La
motivazione fa ancora venire la pelle d’oca: «In cruenta ed impari
lotta, anziché porsi in salvo, come ripetutamente dai superiori era
stato invitato a fare, a capo di un manipolo pressoché annientato si
slanciò attraverso una zona battutissima dal fuoco nemico. Ferito si
rifiutava di abbandonare il proprio reparto, dando così luminoso esempio
di belle virtù militari».
Diventa insomma un personaggio importante ma non ha nessuna intenzione
di scrivere un’autobiografia encomiastica. Per quell’attitudine
antieroica che hanno molti veri eroi, preferisce fermarsi prima,
all’estate del 1915, e raccontare la guerra vissuta da gregario, soldato
semplice fra soldati semplici. Preferisce raccontare una vita
quotidiana fatta di trincee scavate anche a mani nude, di notti
all’addiaccio, perfino sulla ghiaia, di rancio a volte puzzolente a
volte inesistente, di impossibilità di lavarsi e di ciò che ne consegue:
«Ci siamo abituati alla sporcizia, a tenere le scarpe ai piedi per più
giorni di seguito, ci abitueremo forse anche ai pidocchi, ma per ora è
un martirio».
Stuparich è un letterato, è un collaboratore della Voce (in quel momento
la più importante rivista culturale italiana), è amico di Soffici, di
Rosai, di Prezzolini (che gli scrive spesso), eppure di letteratura non
parla mai. Giusto, quando intorno cadono proiettili da 305 le
discussioni delle Giubbe Rosse passano in secondo piano: «Siamo saliti
quassù prima dell’aurora, per prepararci all’assalto. È la volta del
nostro battaglione, il quale deve tentar la conquista delle trincee
nemiche che tutta l’altra notte tutto ieri hanno resistito ai nostri
assalti. Penso, con calma, che bisognerà morire». Erano carne da
cannone, i soldati della grande guerra gettati da generali senza
coscienza in attacchi senza speranza. Ciò nonostante Stuparich non
maledice mai e si lamenta pochissimo.
Ho finito il libro pieno di ammirazione per lo scrittore e per l’uomo e
lo so che non si dovrebbe fare, che le armi sono cambiate, che
l’esercito è cambiato, che il mondo è cambiato, ma faccio un paragone
coi giorni nostri, con queste altre guerre del ’15, del 2015 stavolta. E
non riesco a immaginarmi, su qualsivoglia fronte odierno, un
soldato-scrittore con un senso così alto del dovere e dello stile.