Recensioni / Le linee interrotte di Libeskind

Daniel Libeskind è oggi noto per la realizzazione del Museo ebraico di Berlino e per la ricostruzione dell’area di Ground Zero a New York: due progetti dall’altissimo valore simbolico e memoriale. La sua formazione è di certo inconsueta: partito dalla musica, nelle vesti di esecutore e concertista, approda solo in un secondo tempo all’architettura, costruendo un percorso in cui anche la filosofia e la riflessione teorica giocano un ruolo di primo piano.

Ne è testimonianza il bel volume a cura di Dario Gentili che raccoglie interventi di varia natura a firma di Libeskind: La linea del fuoco. Scritti, disegni, macchine (Quodlibet, 2014) permette, difatti, di ricostruire gli itinerari mentali dell’ormai noto architetto. Vi si trovano frammenti filosofici – una forma congeniale a Libeskind, che più volte trova in Walter Benjamin uno dei suoi modelli – meditazioni occasionali, dialoghi, interviste, che descrivono una ricchezza di sollecitazioni e di impulsi culturali davvero apprezzabile.

Del resto, è proprio questa costante trasmigrazione da un sapere all’altro l’oggetto delle più acute riflessioni dell’architetto polacco: l’architettura incontra la musica, il teatro, la società, in virtù della sua costitutiva tensione a ricercare nella spazialità le ragioni del suo essere, e diviene così, al di là della tecnica, strumento per parlare dell’uomo e all’uomo. Il motivo da cui uno dei saggi qui raccolti, Simbolo e interpretazione, prende le mosse riconsegna al lettore le ragioni di un legame inestricabile tra arte, rappresentazione e realtà: «L’architettura e l’educazione architettonica – scrive Libeskind – riflettono più fedelmente forse di ogni altra arte l’ordine della società, l’ideologia della configurazione formale e i limiti al di là dei quali le forme diventano inaccettabili e sono considerate semplicemente come irrilevanti e prive di ordine».

In altri termini – che sono poi i termini di un pensiero dialettico a cui l’autore sembra accostarsi parcamente –, il senso architettonico riflette la configurazione formale della società, le modalità di oggettivazione del rapporto sociale. Ordine e forma diventano allora categorie di mediazione in un tempo che pare destinato all’egemonia assoluta della Rappresentazione (la quale, senza una qualche forma di regolarità, si avvia allo svuotamento della rappresentazione stessa, o allo sprofondamento nel Caos): «La questione dell’ordine in architettura (e non solo) non è semplicemente di carattere formale, ma è connessa […] a un punto di vista etico e morale sulla società».

E tale proiezione verso l’oggettività sociale e umana permette a Libeskind di contrassegnare la nostra odierna «formalizzazione dell’esperienza vissuta» in un cumulo di norme specialistiche, limitate, per certi versi autoreferenziali, cosicché non esistono più uno spazio e un tempo comuni, ma leggi singolari di spazialità e temporalità, dietro la cui relativistica esistenza si cela un dogmatismo più sottile e penetrante. In qualche modo, l’architettura, che risponde a un’oggettivazione capace di dar vita a nuovi percorsi e processi di «profondità e nascondimento», ha la possibilità di rimettere in gioco, diremmo dialetticamente, una filosofia della forma, una riabilitazione di quella «trasfigurazione del concreto» (e di quella emersione delle forme sensibili del concreto) che è alla base di una teoria (per molti aspetti ancora hegeliana) dell’arte moderna.

La dimensione antispecialistica e sinergica si coglie maggiormente negli scritti dedicati alla relazione tra musica e architettura. Nel ripercorrere le motivazioni che presiedono alla realizzazione del Museo ebraico, Libeskind fa riferimento all’importanza accordata al Mosé e Aronne di Schönberg e al valore che quest’opera attribuisce all’interruzione del canto: Mosé smette difatti di cantare e si limita a dire, cioè a esibire un testo, le sue parole, o ad attestare la fine di un canto, la fine della parola cantata o, come scrive l’architetto con bellissima espressione, il «compimento non musicale della parola». La fine del sentiero (la fine del canto) è un luogo decisionale, un invito ad agire, un’allegoria della Storia: e Libeskind riporta questo zigzagare nel progetto di costruzione del Museo, alludendo alla segmentazione della linea continua di cui Benjamin parla in Strada a senso unico.

Musica e architettura si incontrano, per l’architetto polacco, nei percorsi materiali che presiedono all’ordine di un progetto: entrambe permettono la dialettica tra una pura immaterialità (l’estrema concettualizzazione dell’una e dell’altra) e un senso pratico-concreto ineliminabile. Vi è tuttavia un luogo d’elezione di tale incontro, vale a dire ciò che Libeskind – crediamo sulla scorta di Schönberg – definisce figura spaziale. Il rapporto tra musica e architettura è «multidirezionale e multidimensionale», è anzitutto «estramemente figurativo»: forma e figura descrivono, in qualche modo, una sorta di fantasmagoria ideologica (un inconscio politico, direbbe Fredric Jameson) che informa la costruzione artistica. Pensiamo alla serie dodecafonica o a qualsiasi altra formula seriale, e concentriamoci sulle possibilità formali delle sue mutazioni (l’inversione dei rapporti intervallari, la collocazione delle sue note in uno spazio, ecc.): non sono queste figure che restano dietro la trasfigurazione del concreto? Non sono esse stesse, in qualche modo, il concreto? Libeskind vi aggiunge un’annotazione decisiva: le forme musicali sono «incarnazioni palpabili e concrete di una certa forma di pensiero», in quanto presentano una necessità intima di realizzazione nello spazio.

L’esperienza della spazialità in musica non è dissimile dall’esperienza della spazialità in architettura: entrambe le arti abitano e praticano linee, percorsi. La materialità dell’esperienza è legata a doppio filo alla concettualizzazione sonora o spaziale. Il significato tattile attribuito alla musica di Bach – Libeskind cita giustamente Glenn Gould e la sua scoperta di un’immagine mentale del suono che è una sola cosa con la sua digitalizzazione alla tastiera – ha a che vedere con lo sviluppo di una corporeità spaziale che è figura sonora: «Quando si disegna un edificio, quando si lavora a un modello – sia esso di carta, di cartone, di legno – oppure si disegna a matita o ad acquarello, il risultato è lo stesso: un disegno non è di certo un edificio.

Il modo in cui si posizionano le mani sul pianoforte non significa certo suonare musica, eppure sia la postura del corpo, sia la distribuzione dei movimenti, sia il tipo di disposizione della mente e dello spirito corrispondono davvero a ciò che penso leghi la pratica dell’architettura quantomeno alla mia personale concezione di come la musica può essere trascritta», chiosa Libeskind. Che sembra costantemente ribadire nel volume un suo importante punto d’arrivo: non si può separare la materialità della musica dalla sua idea, la materialità dell’architettura dal suo progetto concettuale.