In corso al Macro di Milano una mostra sul pittore e poeta Toti Scialoja (1914-1998), che pubblicò molti libri di filastrocche e poesie illustrate per bambini. Ne abbiamo parlato con Eloisa Morra, autrice di un saggio su Scialoja.
Puoi raccontare ai nostri lettori chi era Toti Scialoja?
Toti Scialoja era un visionario dai molti talenti che ha attraversato
tutto il novecento con “leggerezza pensosa”. Nasce nel 1914 in una
famiglia dell'alta borghesia romana, composta perlopiù da giuristi ed
accademici, ma già a vent'anni lascia l'università per seguire le sue
due grandi passioni, la letteratura e la poesia. Due amori, e due
talenti, che non vanno però di pari passo: Scialoja approda alla pittura
solo sul finire del 1939, dopo una cocente delusione che lo porterà ad
abbandonare l'arte poetica per qualche decennio. A inizio anni Cinquanta
lo ritroviamo a New York, dove ha la possibilità di conoscere i
maggiori esponenti dell'Action Painting americano, e di farsi mediatore
tra quell'ambiente artistico d'avanguardia e l'Italia.
L'inizio degli anni Sessanta lo vede fronteggiare una seconda crisi,
stavolta pittorica: ed è da lì che nascono i nonsense illustrati inviati
senza molto pensare al nipotino James Demby nel 1961. È la sua
rinascita come poeta, testimoniata da bellissimi libri pubblicati negli
anni Settanta per Bompiani ed Einaudi. Ed oltre a questa doppia
vocazione Scialoja è stato scenografo, critico d'arte, insegnante
all'Accademia di Belle Arti di Roma (un percorso ricostruito da 100
Scialoja. Azione e pensiero, ovvero la retrospettiva in corso al Macro
proprio in queste settimane). Insomma, un artista a tutto tondo che vale
davvero la pena di riscoprire.
Scialoja dunque ha avuto contatti molto intensi col mondo dell'infanzia…
ci sono dei suoi testi che consiglieresti particolarmente a chi lavora
con i bambini della scuola dell'infanzia e primaria?
Sì, certamente, consiglio senz'altro i testi che compongono i primi
libri nonsense, da Amato topino caro a Una vespa! che spavento. Sono
storie che hanno come protagonisti gli animali, ma si distanziano del
tutto dalle classiche fiabe (e annessa morale): nascono infatti dal
combinarsi delle allitterazioni e delle rime, piuttosto che svilupparsi
secondo la logica tradizionale.
"Topo, topo / senza scopo / dopo te / cosa vien dopo?": sono versi di
una musicalità straordinaria, e (qui mi riferisco a un'esperienza
personale, visto che li ho letti insieme ai miei nipoti) i bambini ne
rimangono talmente affascinati da impararli a memoria senza particolare
sforzo. È molto buffo sentirli pronunciare delle parole difficili o
letterarie (secchia, proto, etc.), solitamente introvabili in altri tipi
di filastrocche; questo perché Scialoja si rivolgeva direttamente a un
doppio pubblico, di bambini ma anche di adulti... Dunque presentarli in
classe sarà un doppio divertimento, per i piccoli alunni e per i
maestri!
Che cosa pensava Scialoja della scuola? E dei bambini?
Scialoja ricordava sempre che a scuola lo obbligavano a imparare a
memoria le poesie del nostro canone, da Leopardi a Carducci a Pascoli, e
lui detestava questo processo forzato. Proprio da un moto di ribellione
verso la scuola intesa in senso tradizionale aveva iniziato a scrivere
le sue prime strofette comiche, a dieci anni. Ma il bello è che molti
anni dopo, nei suoi nonsense, sarebbe ritornato con nostalgia proprio a
quei versi imparati a memoria durante l'infanzia, creandone delle
rielaborazioni giocose che mimano gli inciampi della memoria, come nel
famoso episodio di Alice nel Paese delle Meraviglie. Così il Bove di
Carducci viene alleggerito nel distico "T'amo, pio bue! / Anzi, ne amo
due", il passero solitario si tramuta in una "cornacchia che sonnecchia
nella nicchia / della torraccia vecchia. E non si impiccia", mentre la
neve che continua a fioccare in Orfano di Pascoli diviene una lepre che
"in fretta bruca bruca bruca"... Quindi paradossalmente è proprio dalle
prime memorie scolastiche, e in particolare da quei classici oggi spesso
letti stancamente, che Scialoja trae linfa vitale per la sua poesia.
Riguardo al suo rapporto con i bambini da molte interviste (e dalle
testimonianze di chi gli è stato vicino a lungo) si intuisce
l'inaspettato: Scialoja non li amava particolarmente; piuttosto, gli
piaceva l'idea di ritornare alla sua propria infanzia attraverso la
poesia. Ma forse l'aspetto più interessante è che per Toti il bambino
non è un essere innocuo e pacifico, tutt'altro: è un intellettuale in
miniatura dotato di grande immaginazione, che come tale vive momenti
profondi di attesa, di vuoto, di angoscia... Proprio per questo le
poesie nonsense non sono mai dolciastre o moralistiche, anzi, tendono a
liberare il linguaggio dal peso del senso comune e nascondono sotto
l'apparente leggerezza un sottile velo di malinconia.
Ti chiediamo un ultimo regalo: scegliere per i nostri lettori e i loro
alunni e bambini un disegno dell'autore e commentarlo brevemente.
Ne ho scelto uno che avrebbe dovuto illustrare una delle poesie più
famose di Toti Scialoja: "Il sogno segreto / dei corvi di Orvieto / è
mettere a morte / i corvi di Orte".
Dico "avrebbe dovuto" perché non è stato incluso nei libri illustrati ed è rimasto per lungo tempo inedito.
Come vedete è un disegno ingenuo, il corvo è rappresentato nelle sue
semplici caratteristiche, senza nessun tipo di arzigogolìo stilistico.
Ma è interessante che Toti abbia pensato di far appollaiare l'animale
sulla scritta "Orvieto", quasi a darci un indizio per risolvere l'enigma
della genesi delle sue poesie. Che nascono sempre da una simultaneità:
prima del soggetto-immagine della storiella viene la parola, e la parola
stessa viene considerata in quanto immagine, aggregato di simboli,
prima ancora che portatrice di un significato... Il segreto dei segni e
dei disegni di Toti è tutto qui, in quest'alchimia.