Recensioni / Fare cose con le parole

«Il valore delle cose» di Yan Thomas (Quodlibet, 2015) verrà presentato domenica 29 marzo alle 13.00 nell'ambito di Book Pride - Fiera dell'editoria indipendente a Milano (Frigoriferi Milanesi - via G. B. Piranesi 10). Interverranno Eva Cantarella e il curatore Michele Spanò.
È nota quale sia la «x» che, nel celeberrimo quinto capitolo del Second Treatise, consente a Locke di risolvere il problema della proprietà. Dio ha dato il mondo in comune a tutti gli uomini: com’è possibile allora che essi possano possedere alcunché in privato? La risposta, a suo modo geniale, è però quasi-tautologica: l’appropriazione mediante lavoro è il gesto che, prima e al di là di ogni contratto, istituisce un diritto soggettivo esclusivo sui singoli beni. Nulla di più naturale, nulla di più immediato. Così come naturale e immediata è quella Besitznahme, quella presa di possesso che inaugura per Hegel il ciclo dialettico del diritto astratto, o quel nemein (prendere/conquistare) a cui Schmitt rinvia in quanto radice etimologica e significato primo del termine nomos.
E in effetti, fatte salve oscillazioni, deviazioni e pur cospicue divergenze, il concetto moderno della proprietà pare originare da un medesimo quadro paradigmatico, il cui perimetro è definito da un triplice ordine di priorità. Primato dell’appropriazione, innanzitutto. Ma anche primato del soggetto sull’oggetto – di un individuo possessivo sovrano su un mondo di cose a sua disposizione – e della natura sull’artificio, dell’immediatezza dell’atto appropriativo sulla mediazione dello strumento giuridico.
L’indagine archeologica che Yan Thomas – uno tra i più originali romanisti della seconda metà del Novecento – conduce ne Il valore delle cose [qui un estratto] consente precisamente di mettere sotto cauzione questa genealogia proprietaria, inquietandone e dunque rivelandone l’episteme. L’analisi spregiudicata e filologicamente rigorosa delle fonti del diritto romano gli dà modo infatti di riportare alla luce una costellazione concettuale diversa e addirittura opposta rispetto a quella moderna, e in cui il prius logico non è assegnato al momento prensile e «guerresco» della occupatio ma, tutt’al contrario, alla delimitazione di un ambito primario di inappropriabilità, di indisponibilità all’appropriazione.
È l’ambito delle res nullius in bonis: cose pubbliche, cose sacre, religiose e sante la cui destinazione – rispettivamente: all’uso comune della città o al culto degli dèi – le sottrae perpetuamente alla sfera sociale della proprietà e del commercio, costituendo però allo stesso tempo la precondizione affinché questa sfera possa emergere come tale. La vocazione patrimoniale delle res «non si coglie infatti che per contrasto rispetto al regime di indisponibilità da cui esse sono eccezionalmente colpite […]. Perché appaia esplicitamente la loro natura giuridica di cose valutabili, appropriabili e disponibili, è necessario che alcune tra esse siano state escluse dall’area dell’appropriazione e dello scambio». Lo stato d’eccezione delle cose indisponibili è insomma il dispositivo che permette di liberare quelle disponibili, aprendole al gioco profano del mercato.
Su questo palcoscenico, sono le res le indiscusse protagoniste. Secondo, decisivo rovesciamento rispetto alla prospettiva moderna: il paesaggio del diritto romano è un paesaggio a forte connotazione oggettiva, che sospende e anzi ribalta il primato incontrastato del soggetto e il suo rapporto di «libero dominio» con l’oggetto. Come scrive Michele Spanò nella sua bella postfazione, «all’ipotesi secondo cui sarebbe un soggetto (proprietario) a governare un mondo di cose naturalmente disposto all’appropriazione, [Thomas] oppone un mondo di cose qualificate […] dal diritto che distribuiscono titoli e diritti in capo a soggetti». Occorre però intendersi sulle parole (e sulle cose).
Perché la «cattura giuridica» delle res non consiste in una mera operazione di trasposizione di un piano di realtà in un orizzonte di discorso, non si limita a usare parole per descrivere cose che esistono prima e indipendentemente dalla loro enunciazione. Il diritto (romano, ma non solo) fa, letteralmente, cose con le parole: le sue qualificazioni ritagliano le porzioni di volta in volta rilevanti del reale e le costituiscono in res, producendo un mondo preternaturale che però ha il potere di retroagire su quello naturale e di modificarlo.
La procedura è il luogo where the magic happens, dove il linguaggio giuridico – sottolinea ancora Spanò – mostra «al più alto grado» il suo carattere performativo. Di qui l’equivocità strutturale del termine res, che designa «allo stesso tempo la cosa e il processo, il valore e la procedura attraverso la quale esso è stabilito». Il valore delle cose patrimoniali, così come l’invalutabilità di quelle extra-patrimoniali, non sono perciò semplicemente ricavabili dalle loro caratteristiche fisiche o dalle loro qualità ontologiche (dal loro valore d’uso), né sono direttamente desumibili dal loro prezzo (nel senso del valore di scambio), ma sono invece il frutto di una decisione lato sensu politica, si tratti della prescrizione di un magistrato o dell’arbitrato di un giudice.
Da questa de-sostanzializzazione del diritto, che attraversa per intero l’opera di Thomas, deriva infine il terzo e forse più radicale rovesciamento. Perché se assumiamo per vera l’ipotesi che il gesto appropriativo dipenda da una preliminare definizione giuridico-procedurale, e se – come fa Agamben nel saggio che apre il volume – riconosciamo al diritto il suo statuto di «strumento di denaturazione del mondo», dobbiamo allora anche ammettere che il regime proprietario ha davvero ben poco di immediato e di naturale. Ciò peraltro non avrebbe in sé nulla di particolarmente straordinario, non fosse che la «lunga cottura della storia» ci ha ormai abituato a considerare la naturalità della proprietà come un dato incontrovertibile e un tratto inalterabile del nostro essere-insieme.
In un’epoca in cui un secondo movimento di enclosures intacca con sempre maggiore violenza le riserve di indisponibilità antiche (città, teatri, strade, spiagge) e nuove (dal genoma ai saperi alla rete), la lezione di Thomas sta a ricordarci che la proprietà riposa su una fictio, che il suo fondamento non è naturale né teologico ma artificiale, illusorio. Il che non significa ovviamente dichiararne ipso facto la vanità o sancirne in un colpo l’inconsistenza: l’illusio, nel senso bourdieuiano, è al contrario proprio quel rapporto magico che ci tiene avvinti al gioco, che ci spinge ad attribuire valore alla posta in gioco del gioco sociale.
E tuttavia, ecco il punto, ciò significa che con la proprietà si può e anzi si deve giocare, che nessuna legge di natura può pretendere di metterla al riparo dal raggio d’azione della politica e del diritto. La teoria e la pratica dei beni comuni sembrano appunto muoversi in questa direzione, prendendo a divisa il vecchio monito di Rousseau: «Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!».