Un’analisi lucida e puntuale dell’opera di un artista comporta un
rischio, quello di prescindere, paradossalmente, la sostanza che si cela
al di là di un gesto pittorico, di un segno. È necessario compiere un
passo ulteriore, valicare la disamina formale e spingersi nell’indagine
di ciò che è nient’altro che umano. Una tale pratica deve essere
distinta dal resoconto di gesta rocambolesche, di vite al limite; si
tratta piuttosto di operare una riflessione profonda e critica sul
pensiero dell’artista, sulla personale concezione di vita e dunque sulle
ragioni del fare artistico. D’altro canto, cedendo all’eccesso opposto,
si rischia di produrre una sterile impalcatura biografica, anch’essa
pericolosa.
Per questa ragione, Vita sconnessa di Enzo Cucchi di Carlos D’Ercole, è
un esempio di biografia non convenzionale dove la ricostruzione della
personalità artistica di Cucchi si costituisce su piani disarticolati e
sconnessi, appunto. L’opera letteraria in questione si nutre di
testimonianze provenienti dalla sfera professionale tanto quanto da
quella personale. Ci si imbatte dunque non solo in resoconti di critici,
storici dell’arte, galleristi e collaboratori ma anche in aneddoti e
memorie di amici più o meno stretti. Una testimonianza corale che si
fonda sulla dialettica del frammento; un mosaico che restituisce una
personalità intricata, a tratti incoerente, provocatoria e beffarda.
Attitudini, quelle proprie di Enzo Cucchi, che verso la seconda metà
degli anni Settanta lo accomunavano ai membri della congrega della
Transavanguardia – movimento artistico di cui egli era il più visionario
– in cui l’ironia e un certo distacco rispetto al gusto sociale
dominante costituivano una ricerca artistica volta al recupero di
tecnicismi considerati allora inattuali; la pittura ne era il massimo
esempio.
È nella scelta stilistica di D’Ercole, nel tentativo di restituire un
documento dalle molteplici sfaccettature non esauribile in compartimenti
prestabiliti, che si condensa tutta la complessità della figura di
Cucchi: una tipologia di artista che da etichette e consuetudini si
tiene a distanza, sebbene l’appartenenza alla Transavanguardia gli sia
costata, in passato, una costante inquadratura. Un contrassegno
certamente non sempre gradito e opportuno, e che anzi, nell’intervista
riportata nel capitolo finale, viene definito dall’artista stesso come
una «croce, una fatica, un handicap».
Dunque, tra i contributi di Emilio Mazzoli, Francesco Clemente, Brunella
Antomarini, Luigi Ontani, Joseph Helman, Miltos Manetas, Salvatore
Lacagnina, Paul Maenz, Bernd Kluser, Mimmo Paladino e Jacqueline
Burckhardt non si configura alcuna celebrazione, tantomeno
idealizzazione; Enzo Cucchi è, nell’opera di Carlos D’Ercole, l’uomo che
incarna la transizione postmoderna, la disillusione che bersaglia,
ineluttabile, la concezione di identità come corpus unitario. Ciò che
rende interessante questo ritratto desueto è la singolarità che si
evince in Cucchi fin dagli esordi, quando il ricorso a un’espressività
tradizionale si coniugava a una elevata considerazione dello
sperimentalismo tipico delle tendenze contemporanee. Una consapevolezza
di passato e presente necessaria, se si considera il fenomeno della
Transavanguardia come manifestazione di una scissione tra oggetto –
finalità – significato e il conseguente tentativo di ri-acquisizione
linguistica.
D’Ercole consegna al lettore un’opera che si fa specchio di tutto un
contesto storico-artistico ricco di contraddizioni proprie e non solo;
osa andare incontro all’uomo, come afferma lo stesso Cucchi: «I pugili e
le puttane hanno la capacità di andare incontro all’uomo, la cosa più
difficile da fare. Devono misurarsi con la paura che non è la paura
dell’ignoto, di un terremoto, ma una paura che conoscono. Quindi
meritano grande rispetto».