Mezzo secolo fa, una delle maggiori riviste del secondo Novecento, "Il
Menabò" di Vittorini e Calvino, pubblicò un numero antologico dedicato
alla letteratura tedesca del dopoguerra a cura di Hans Magnus
Enzensberger. Il curatore scelse un titolo che ebbe una certa fortuna:
«Letteratura come storiografia». Secondo Enzensberger, gli storici
professionali hanno un difetto di cui non sembrano neppure consapevoli.
Nella loro terminologia trovano posto classi e ceti sociali,
istituzioni, ideologie, personaggi eminenti, problemi economici: ciò che
non compare è la comune umanità con le sue esperienze e la vita
quotidiana vissuta all'ombra dei grandi eventi. Esiste, scriveva
Enzensberger, una «differenza gnoseologica fra la rappresentazione dello
storico e quella dello scrittore» poiché «lo storico cerca la totalità e
lavora con enormi riduzioni; lo scrittore accoglie il dettaglio». Può
dedicare diverse pagine a descrivere un quartiere, una strada, la
giornata di un operaio. È per questo che «esseri umani vissuti prima di
noi li incontriamo solo nella letteratura». Le cosiddette "forze
storiche" possono essere concettualmente definite più che empiricamente
descritte. Questa semplice ma notevole idea di Enzensberger ricompare
nel titolo di un libro appena pubblicato da Emanuele Zinato, che
riprende il filo del discorso in forma interrogativa: Letteratura come storiografia? Mappe e figure
della mutazione italiana (Quodlibet, pp. 238, euro 22). Qui il
sottotitolo non è meno importante del titolo. Zinato studia la "mutazione" rileggendo Parise, Volponi, Fortini, Primo Levi,
Sciascia, Elsa Morante (con la selezione poco condivisibile di qualche
autore più giovane).
Mi limito a due osservazioni. Se gli storici novecenteschi fossero stati
un po' meno storicisti, meno impregnati di filosofia della storia,
prima idealistica, poi materialistica, prima concentrata sullo Spirito
che evolve verso la libertà, poi sulla Struttura economica che determina
ideologia e politica: se cioè fossero stati più capaci di usare
documenti e testimonianze letterarie, la polemica di Enzensberger non
avrebbe avuto ragioni.
Finché la storiografia fu un genere letterario, lo storico e lo
scrittore potevano coincidere. Ma le specializzazioni disciplinari sono
ormai irreversibili. Non solo, come si dice, gli storici spesso
"scrivono male", ma ignorano la letteratura, non la sanno usare, la
evitano perfino quando si tratta di generi realistici come
l'autobiografia, la satira, il diario, la critica culturale, la
letteratura di viaggio. La "microstoria" di Carlo Ginzburg nacque, mi
sembra, per correggere le astrazioni storiografiche dovute o all'idea di
totalità sociale o ai puri dati statistici. Ma la sua influenza è stata
scarsa. Non sono molti gli storici della società italiana dell'ultimo
mezzo secolo che abbiano mostrato di apprendere qualcosa dalle pagine di
Gadda, Carlo Levi, Piovene, Elsa Morante, Volponi, Parise, La Capria,
Garboli... Anche poeti come Montale, Pasolini, Zanzotto, Giudici hanno
scritto, in prosa e in versi, pagine storiograficamente utili.
Ci si può chiedere poi quando è arrivata la "mutazione". Montale ne
parlava già nel 1949. Ma credo che per quanto riguarda l'Italia vadano
distinte tre fasi: la modernizzazione 1955-70, la postmodemità 1975-90 e una mutazione tuttora in corso. Le
date sono ovviamente approssimative. Il fatto che in Italia la
modernizzazione industriale (e relativa classe operaia) sia arrivata
solo alla fine degli anni cinquanta, ha spostato tutto in avanti.
Non discuto qui che cosa siano postmodemismo e postmodemità: non si
finirebbe più. È certo comunque che la vera mutazione arriva quando
un'intera cultura non sente più di avere rapporti di continuità con la
modernità classica culminata nella catastrofe della seconda guerra
mondiale. È la glob a lizzazione informatica ad averci sradicato anche
dalla modernità. Luomo di oggi (come già diceva Giinther Anders) è reso
"antiquato" da nuova economia e nuova tecnica.