Alcuni di loro avevano vent'anni. Era il 1949. Si stava chiudendo mezzo secolo durante il quale c'erano state un paio di guerre mondiali, una crisi economica senza precedenti, l’avvento dei partiti di massa e la nascita dei totalitarismi. Come una mela il mondo si stava spaccando in due. Quell’anno un gruppo di giovani, tutti di sinistra, tutti di buona famiglia si riunirono per dare vita a un giornaletto ciclostilato sul quale dibattere le proprie idee. Si chiamava Discussioni e la rivista, unica nel suo genere, durò quattro anni, fino al 1953. Quell’avventura culturale vissuta in forma semiclandestina viene oggi ripresentata in una edizione integrale, e con una importante premessa di Renato Solmi, dalle edizioni Quodlibet (pagg. 394, lire 48.00).
Dei partecipanti di allora alcuni, come Delfino Insolera, Roberto Guiducci, Franco Fortini, sono scomparsi. Altri sono certamente invecchiati ma in grado di ricordare e di ridiscutere quell’esperienza intensamente vissuta mezzo secolo fa. E lo fanno riunendosi per l’occasione nella casa milanese di Raffaella Solmi, figlia di Sergio e sorella di Renato. Seduti in cerchio oltre a Renato Solmi ci sono Luciano Amodio, Emanuele Tortoreto, Fulvio Papi, ed Edoarda Masi che non appartiene al gruppo, ma è lì in qualità di esponente del Centro Studi Franco Fortini che ha sede a Siena e la cui attività ha permesso la pubblicazione del libro.
È una cosa un po' insolita che, finita ormai da tempo la guerra, un gruppo di ventenni pensasse a dibattere grandi questioni piuttosto che a divertirsi.
Solmi: «Io nel 1949 avevo 22 anni. Non penso che la massima aspirazione fosse divertirsi. Anche quello naturalmente. Ma intuivamo che gli anni a cui stavamo andando incontro sarebbero stati durissimi».
Prima di parlarne volevo chiedervi chi oltre a voi condivise questa avventura.
Solmi: «A parte i presenti, c'erano Delfino Insolera e Roberto Guiducci, Claudio Pavone; Franco Fortini e Cesare Cases. Cito solo alcuni dei nomi che a vario titolo parteciparono a questa avventura.
Che generazione fu la vostra?
Amodio: «Non so se eravamo in senso stretto una generazione. Sicuramente fummo una minoranza antifascista»
Minoranza perché? Il fascismo era caduto da un pezzo.
Amodio: «È vero, ma la generazione, quella che si poteva ritenere tale aveva,condiviso,il fascismo e se ne era discostata dopo la sua crisi».
Solmi: «Quello che stai dicendo è vero per i giovani che vissero il fascismo negli anni trenta e poi parteciparono alla guerre. Noi due che siamo stabti compagni di scuola e di banco al Berchet, eravamo più giovani della generazione degli Insolera e dei Guiducci che erano già maggiorenni quando fecero l'esperienza della guerra e della resistenza».
Del fenomeno della Resistenza nella vostra rivista non si parlò mai. È curioso per gente che come voi militava a sinistra...
Solmi: «Una ragione che risiede nel fatto che Delfino Insolera, che per primo aveva voluto la rivista, sosteneva insieme a Claudio Pavone un certo distacco dalla Resistenza, in particolare verso i suoi miti e verso la retorica patriottica che le era stata costruita attorno.
Fu una strana figura di intellettuale quella dl Insolera.
Amodio: «Fu lui a dare l'impronta iniziale alla nostra rivista. Poi a un certo punto scomparve dalla circolazione»
Solmi: «Si era laureato in ingegneria a Roma e poi in filosofia a
Milano con Antonio Banfi.
Tortoreto: «Tutto questo del resto è ben raccontato nel suo libro Come spiegare il mondo, uscito qualche anno fa dalla Zanichelli, dove fu anche direttore editoriale»
Solmi accennava a Banfi, che ruolo ha avuto, se lo ha avuto, nella la vostra rivista?
Papi: «Fu una figura culturale di riferimento, ma era troppo anziano per poterlo coinvolgere direttamente. Era un senatore comunista, figura di rilievo dell'establishment del partito. Però la nostra gratitudine va non solo a Banfi ma anche all'ambiente, alla scuola che egli aveva creato. I suoi allievi - Cantoni, Paci, Preti - li sentivamo molto vicini alle nostre posizioni. Discutevamo con loro».
Materlalmente dove avvenivano queste riunioni?
Tortoreto: «In via Fogazzaro 27, che era poi la case di Sergio Solmi».
Solmi: «È vero che spesso ci vedevamo nell'abitazione dei miei, ma le riunioni avvenivano anche a casa dei Guiducci e poi da Fortini».
Fortini quando entrò in contatto con voi?
Solmi: «Se non ricordo male era il 1951 ».
Toglietemi una curiosità, nella ricostruzione che fate della collaborazione di Fortini non si capisce se è più forte la gratitudine verso la sue autorevolezza, o il sospetto che il personagglo fosse troppo ingombrante.
Solmi: «Le questioni a cui allude riguardano più gli anni successivi che quelli in cui Fortini è stato presente nella rivista. In quel periodo, ma anche dopo per quanto mi riguarda, sono stato politicamente vicino a Fortini, ne ho approvato l'azione anche se per mio conto non sarei stato in grado di fare le stesse cose».
Perché?
«Perché operavamo a livelli diversi. Io lavoravo all'Einaudi con un ruolo molto più subalterno di quello che si era ritagliato. Era una sorta di free lance writer con una capacità incredibile di approfittare di tutte le tribune possibili. E a differenza di altri che avrebbero messo in dubbio questa sua duttilità, trovavo che faceva benissimo ad usare ogni occasione per dire tutto quello che gli passava per la testa».
Ma negli anni delta rivista fu o no un punto di riferimento per voi?
Amodio:«Non bisogna cadere in anacronismi. Quando Fortini ci avvicinò non era ancora quella figura di spicco che in seguito sarebbe diventata. Nei suoi riguardi non c'era nessuna venerazione».
Un sentimento che avevate invece per Banfi, o no?
Amodio: «Banfi era un'altra cosa. La sua presenza autorevole nel Pci aumentava le probabilità che quel partito potesse trasformarsi in senso più democratico».
E lo credevate davvero?
Amodio: «In fondo a Milano, diversamente da Roma, si viveva un' atmosfera di comunismo leggero, aperto all'ambiente intellettuale, per cui era anche giustificabile per dei giovani come noi nutrire qualche illusione».
Tortoreto: «Io non sono stato allievo di Banfi, però in quanto legato al partito socialista mi ricordo alcune riunioni congiunte con i comunisti sui temi culturali. A volte interveniva Banfi. Ricordo che alla sua presenza le discussioni erano molto libere e aperte».
Scusate ma chi oggi sentisse questi discorsi non avrebbe l’idea di quanto duri e dogmatici fossero quegli anni.
Masi: « Io a quel tempo abitavo a Roma ed ero nel partito comunista. Rispetto poniamo alla situazione francese, nel nostro partito c'era un'enorme libertà di discussione, a patto naturalmente che tutto quello che si diceva restasse dentro l’ambiente intellettuale».
Avvertivate questa limitazione come una frustrazione?
Masi: «Non solo era frustrante, ma divenne drammatica dopo i fatti dell'Ungheria. La sezione universitaria fu sciolta. La nostra libertà di discussione fu dunque tanto ampia quanto inefficace. Il partito ci consentiva di parlare fra di noi, ma ci vietava qualsiasi rapporto diretto con la base. Così stavano le cose».
Ma di questo allora eravate tutti consapevoli?
Solmi: «Era un fatto che non si potessero avere rapporti con la base. Io ammiravo Delfino Insolera che riusciva spesso ad aggirare il partito e i sindacati per andare a parlare con gli operai della Isotta Fraschini. Ma erano gli anni 1946-47, c'era ancora uno straccio di aperture. Con il 1948 le cose cambiano radicalmente e si profila un periodo durissimo».
Amodio: «Diciamo la verità, aspettavamo solo che Stalin morisse».
Solmi: «La morte di Stalin fu un evento epocale, ma contrariamene a quello che dici, non è che noi aspettassimo la sue morte. Io avevo l'impressione che il "piccolo Padre" sarebbe durato in eterno, non credevo che potesse morire e quando è morto ho provato un senso di liberazione. Pensai: adesso 1e cose cambieranno».
E cambiarono?
Solmi: «Non ricordo se era la fine del 1953 o il 1954, ma in quel periodo uscì Il disgelo, un romanzo saggio di Ehrenburg. Per l'occasione scrissi un articolo su Nuovi Argomenti in cui salutavo questo libro come una svolta importante rispetto alla cappa ideologica degli anni precedenti. E in quella circostanza tutto mi sarei aspettato, tranne l’intervento di chiusura totale che Togliatti mi riservò su Rinascita. Fu un attacco violentissimo contro di me e, mi pare, contro Vittorio Strada. Altro che disgelo! »
Nel1'ultima fase della rivista Discussione partecipò anche Cesare Cases, come avvenne il suo coinvolgimento?
Solmi: «Fui io a invitarlo a intervenire. In quegli anni Cases era a Milano, si era laureato con Banfi con una tesi su Jünger».
Che impressione ne ricavò?
Solmi: «Dal punto di vista politico aveva torto marcio, ma il suo livello culturale era di primissimo ordine».
Torto marcio in che senso?
Solmi: «Pendeva irrimediabilmente dalla parte dello stalinismo, sia pure alla maniera di Lukàcs». Masi: «Però Lukàcs quando vide i russi sparare sugli operai ungheresi non ebbe più dubbi da che parte stare. Aver sposato la rivolta ungherese gli procurò qualche guaio».
Solmi: «Si, Lukàcs fu allontanato dal partito. Per tornare a Cases credo di aver molto subito la sua influenza culturale. Forse perfino troppo».
A proposito di culture, nella vostra rivista c'è molto Gramsci e Croce, un po' di Lenin e tanto Marx. In fondo quello che ne viene fuori è un repertorio di una sinistra tradizionale.
Papi: «Oltre al marxismo avevamo presente la componente dell'esistenzialismo francese - 1'esperienza per intenderci di Sartre e Les Tempes Modernes - quella del pragmatismo americano nella versione di Dewey. Ricordo che Colletti ci attaccò ferocemente sulla rivista Società, organo ideologico e culturale del partito».
D’accordo, anche grazie a Banfi e alla sua scuola vl eravate aperti a esperienze diverse, fenomenologia e pragmatismo. Ma il grosso della rivista era altro, era quella roba nobile ma molto tradizionale cui alludevo.
Papi: «Occorre aver presente quali fossero allora i modelli culturali dominanti. È vero che noi ci richiamavamo molto a Gramsci, ma quel richiamo era una maniera per opporsi alla vulgata potente del materialismo dialettico sovietico. Quella forza intellettuale, di cui oggi nessuno ricorda più la devastante influenza, pubblicava un'Enciclopedia che partiva dalla nebulosa e finiva con la dialettica delle classi in Occidente».
Insomma criticando il materialismo dialettico vi opponevate all’ Unione Sovietica. Ma che Idea di sinistra avevate allora e quanto quell'immagine in seguito è stata confermata, tradita, cambiata?
Solmi: «Il problema della continuità si pone. Allora - con tutti i limiti che individuavamo nei partiti - noi non volevamo rompere con la sinistra, perchè comunque sembrava che rappresentasse quell'universalità cui avevamo affidato i nostri sogni».
Ma vi bastava?
Solmi: «Certo che no. Almeno non ci bastavano le direttive dei partiti della sinistra. Tanto più che, per quanto mi riguarda, non sono mai stato iscritto a nessun partito. Devo dire che a un certo punto le nostre storie, quelle del nostro gruppo, sono diventate molto diverse. Non so gli altri, io ad esempio ho ritrovato quell'universalità di cui parlavo nell'esperienza dei Quaderni Rossi prima e poi nel Movimento Studentesco».
E oggi?
Solmi: « Oggi le cose sono più difficili, ma non rinuncio a pensare un filo deve esserci, che esiste una specie di chiesa invisibile, nella quale la grande maggioranza dell’ umanità - che non si identifica certamente con le classi dirigenti del mondo capitalistico - si possa riconoscere. E questo ai miei occhi continua a rimanere una esigenza vera».
Papi: «La nostra idea di sinistra allora non fu scossa dalle vicende sovietiche, anzi ne uscì rafforzata. Oggi può apparire strano ma immaginare un approdo socialista in quegli anni diede un senso forte alle nostre vite».
Fino a che punto?
Papi: «Vivere con una convinzione del genere condiziona tutto quello che si fa in seguito nella vita. In fondo il filo a cui alludeva Solmi è anche questo. Siamo stati quella cosa lì. Poi ci saremmo divisi, ciascuno avrebbe preso la propria strada, ma ciò che in quel momento ci accomunò fu aver rivendicato una soggettività diversa dalle cose che i partiti ci offrivano. A un certo punto ho smesso di credere a questa urgenza, una cosa che Fortini invece ha sentito per tutta la vita».
In fondo a vent'anni tutto è possibile, anche immaginarsi che il mondo vada nella direzione dei nostri sogni e poi svegliarsi mezzo secolo dopo per accorgersi che quel tipo di intellettuale ha un po’ fallito. Siete d'accordo?
Amodio: «Sono abbastanza anarchico da accettare il fallimento, ma abbastanza vecchio da vedere che il bilancio non è poi così negativo».
Masi:«Non sempre le sconfitte e i fallimenti sono la stessa cosa.
Solmi: «Preferisco parlare di fallimenti individuali che non di quelli collettivi o di categoria.
Questo mi fa pensare che si può fallire ma insieme lasciare una traccia importante importante del proprio lavoro».
Tortoreto: «Sono convinio che ciò che facemmo allora fu giusto. Forse avremmo dovuto correggere i nostri studi, guardare meno al Capitale di Marx e più a quello reale.
Papi: «È vero. Forse avremmo dovuto leggere meno Marx o Rosa Luxenburg e studiare meglio le condizioni di vita in America. Ma allora non era facile vedere dentro un orizzonte più ampio. Avevamo la sensazione che l'Italia dovesse essere, o diventare di lì a poco, il laboratorio politico dell'Europa. Fu una strana euforia che ci avvolse, e come dopo tutte le euforie immancabili seguirono le depressioni».