Recensioni / Un fratello maggiore. Ricordo di Renato Solmi

L’ultima volta che ho visto Renato Solmi è stato il 30 ottobre 2014, nella clinica torinese dov’era ricoverato. Mi colpì subito la somiglianza con suo padre Sergio, accentuata dal gonfiore del volto. Anche se non riusciva quasi più a parlare, a un certo punto disse a un’infermiera: «È venuto a liberarmi». In quell’ora e mezza ci guardammo a lungo, da vicino: io gli dicevo brevi frasi banali che potessero suscitare una sua reazione, ma lui, pur sforzandosi, rispondeva solo con occhi sconsolati e con rade, stentate parole che rivelavano emozione, consapevolezza e sofferenza. Ebbi la certezza che mi aveva riconosciuto quando pronunciò il nome di mia moglie Fiamma, morta nel 2009.

Vorrei però ricordare Renato come l’ho conosciuto lungo oltre cinquant’anni, nel pieno delle sue attività. Rivedere il suo viso luminoso in alcune foto della giovinezza, come quella di lui ventiduenne fatta sul lago di Como nel 1950, e quelle successive che lo ritraggono con una coppoletta estiva e la macchina fotografica alla marcia della pace Perugia-Assisi del 1961 insieme con gli amici Luciano Amodio, Sergio Caprioglio e Franco Fortini. E riconoscerlo nella folgorante immagine, che chiude in modo perfetto il necrologio di Luca Lenzini, con cui Fortini lo ritrasse nella poesia Ventesimo Congresso: «Il vento/ – diceva ridendo fra i denti –/ il vento della sto¬ria, che ci precipita!».

Renato Solmi, morto a Torino il 25 marzo, due giorni prima di compiere 88 anni, era nato ad Aosta nel 1927. Cresciuto a Milano, aveva studiato al liceo Berchet, compagno di Michele Ranchetti e di Luciano Amodio, che resterà per sempre il suo migliore amico. Si era laureato alla Statale in storia greca discutendo col prof. Alfredo Passerini una tesi su Platone in Sicilia. Nei suoi anni milanesi di precoce formazione intellettuale ebbe modo di conoscere personalmente quanti frequentavano la casa paterna: fra gli altri, Giansiro Ferrata, Eugenio Montale, Gabriele Mucchi, Vittorio Sereni. Recentemente proprio Renato mi aveva detto ridendo fanciullescamente che nella sua giovinezza, quando riempiva senza tregua quaderni di appunti, poesie, traduzioni, note e abbozzi, suo padre aveva osservato scherzando che era come se scrivesse sotto dettatura dello spirito santo.

Nel 1949-50 fu borsista a Napoli, presso l’Istituto italiano per gli studi storici di Benedetto Croce. Un suo coetaneo e compagno di quell’anno napoletano, lo storico Giuseppe Giarrizzo, lo ha ricordato come uno dei giovani più vivaci, politicamente e intellettualmente: «non era allora, e tale sarebbe rimasto, omologabile».

Sempre nel 1949, insieme con Delfino Insolera, Roberto Guiducci, Claudio Pavone, Luciano Amodio e parecchi altri amici dette vita al «Foglio di discussioni», un ciclostilato uscito fino al 1953 che si può a buon diritto considerare incunabolo e capostipite di tante riviste e rivistine della sinistra critica e non ortodossa, nate soprattutto a partire dal 1956. Nel corso degli anni collaborò a riviste e periodici come «Il pensiero critico», «Lo spettatore italiano», «Il Mulino», «Nuovi argomenti», «quaderni rossi», «quaderni piacentini», «L’Indice dei libri del mese», «il manifesto», e a fogli pacifisti e non-violenti.

Dal 1951, dopo l’anno trascorso a Napoli, cominciò a lavorare nella redazione della casa editrice Einaudi. Di Italo Calvino (che lo ritrarrà nel personaggio del filosofo Bensi della Speculazione edilizia), «già assurto alla fama delle patrie lettere, sono stato per oltre un anno compagno di camera in un locale d’affitto in via san Quintino». A metà degli anni ’50 trascorse un periodo di studio a Francoforte per seguire i corsi e l’insegnamento di Theodor W. Adorno («il mio grande maestro», come lo definì nel 2003), da lui per primo introdotto nella cultura italiana. Le lettere che Daniele Ponchiroli – «mio compagno di stanza nella redazione, gentilissimo e affettuoso nei miei confronti, e legato a me da un vincolo di amicizia sincero e profondo» – gli scrisse fra la fine del 1956 e l’inizio del ’57 per informarlo dettagliatamente sulle riunioni e le discussioni nella cellula Einaudi del Pci in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria, «durante il periodo della mia assenza in Germania, meriterebbero di essere pubblicate in qualche rivista di storia contemporanea per lo straordinario interesse che esse presentano».

Dopo il licenziamento dall’Einaudi nell’autunno del ’63, per presunte e pessime ragioni di Realpolitik aziendale, insegnò per circa trent’anni filosofia e storia nei licei di Torino e di Aosta. Le sue iniziative per il rinnovamento e la didattica nella scuola italiana sono ampiamente documentate nell’Autobiografia documentaria; mentre le sue magistrali lezioni di storia e di storia della filosofia sono purtroppo inedite.

Oltre ad Adorno e Benjamin, tradusse opere Anders, Baran, Chomsky, Lukács, Marcuse, Melman, Pollock, Spitzer, per citare gli autori principali. Una menzione particolare merita a mio avviso un lavoro cui Renato teneva moltissimo: la traduzione-adattamento – due quartine di endecasillabi che raddoppiano la quartina originale, corredate da numerosi apparati – dell’Abicì della guerra di Brecht: pubblicato da Einaudi nel 1975 in una collana scolastica, è un libro ormai introvabile che una miope gestione dei diritti del poeta tedesco impedisce di ristampare. Ancora inedite sono alcune sue traduzioni: Clausewitz, e grandi poeti dell’Ottocento come Goethe, Hölderlin, Emily Dickinson.

Credo che molti di noi, lettori e collaboratori di questa e di altre riviste, debbano esprimere riconoscenza a Renato per quello che ha fatto nella sua vita di studioso, d’insegnante e di militante, e che si riflette almeno in parte nell’ampia raccolta pubblicata da Quodlibet nel 2007, che egli volle intitolare Autobiografia documentaria (Scritti 1950-2004). Rispetto ad altri amici e compagni di Renato – penso ad esempio a Piergiorgio Bellocchio, Massimo Cappitti, Francesco Ciafaloni, Goffredo Fofi, Giovanni La Guardia, Liliana Lanzardo, Luca Lenzini, Cesare Pianciola – io ho anche un debito di riconoscenza personale verso di lui, che nella primavera del 1962 favorì il mio ingresso da Einaudi. Ero un laureato come tanti, e ancora mi domando per quale concorso di circostanze Renato fu indotto a darmi fiducia. Quando arrivai in casa editrice sapevo in modo generico ciò che Renato aveva fatto e scritto nel decennio precedente. Nell’anno e mezzo in cui lavorai al suo fianco (giugno 1962 - novembre 1963), in quello che fu per me un apprendistato redazionale molto privilegiato, egli non si occupava quasi più di Adorno, di Benjamin e della Scuola di Francoforte, ma aveva la responsabilità di una collana di attualità politica, i Libri bianchi. In quegli anni aveva conosciuto in casa editrice Raniero Panzieri e si era avvicinato all’attività politica e di ricerca dei Quaderni rossi. Proponendo e traducendo i libri di Günther Anders, Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki (1961) e La coscienza al bando (1962), che raccoglieva il carteggio fra Claude Eatherly (il pilota pentito di Hiroshima) e Anders, Solmi aveva inoltre cominciato a studiare a fondo il problema degli armamenti atomici e del disarmo nucleare. Negli anni e nei decenni successivi non smise mai di dare il suo personale contributo teorico e pratico ai movimenti nonviolenti e pacifisti torinesi e nazionali.

Come i suoi amici sanno e l’Autobiografia documentaria mostra, la sua scoperta di Minima moralia risale al 1952, appena un anno dopo la prima edizione tedesca, e la traduzione ridotta da lui curata appare nel 1954; la sua raccolta benjaminiana Angelus novus esce nel 1962 (ma Renato ci aveva lavorato in anni precedenti); e la traduzione della Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer è portata a termine nel 1961, anche se sarà pubblicata nel 1966, quando non era più da Einaudi, con lo pseudonimo di Lionello Vinci. Va detto che quando scoprì, recensì, propose, tradusse e introdusse in Italia Minima moralia, Renato era un giovane fra i venticinque e i ventisette anni. Meglio di tutti lo ha ricordato Fortini nel 1977: «Leggere le cinquanta pagine introduttive è chiedersi come un giovane da poco uscito d’università abbia potuto scrivere pagine di tanta assoluta intelligenza e lucidità storica; e come simile risultato si sia dato in una situazione politica e intellettuale di chiusura, di dimissione e irrigidimento». E anche chi, come me, non ha alcuna formazione e competenza filosofica, può leggere l’Introduzione di Renato a Minima moralia come un testo quasi miracoloso sia per la profondità dell’immaginazione e dell’argomentazione critica sia per la qualità di una scintillante prosa saggistica, ricchissima e limpida al tempo stesso. Per quel che vale la mia impressione, mi pare che le une e l’altra siano all’altezza del libro di Adorno.

Nel 2006 ci ricordammo che l’anno successivo Renato avrebbe compiuto ottant’anni. Con Michele Ranchetti, suo amico dai tempi di scuola, pensammo di raccogliere i suoi scritti editi in un volume della collana Verbarium, che Michele dirigeva nell’ambito della casa editrice Quodlibet. Anche se molte persone vicine a Renato collaborarono in vari modi a questa iniziativa, il merito principale del suo esito felice è del Centro studi Fortini e dell’editore Stefano Verdicchio. Per quanto mi riguarda, rivendico solo l’ostinazione con cui incalzai Renato nei mesi in cui il libro prendeva forma; e la durezza con cui contrastai la sua tentazione di non includervi le Introduzioni a Adorno e Benjamin, e in particolare quella a Minima moralia. La struttura del libro e la divisione in sette sezioni tematico-cronologiche si devono interamente a Renato. Ora che lui non c’è più, è una vera fortuna che questo grosso libro di oltre 800 pagine resti a documentare in modo pressoché completo le sue molteplici imprese intellettuali. Chi voglia sapere chi è stato Renato Solmi ci troverà tutta la sua storia.

Degli scritti che compongono il libro posso dire che avevo letto in tempo reale quasi tutti quelli delle ultime tre sezioni, che Renato scrisse e pubblicò nel corso degli anni ’60 e ’70 del Novecento sui «quaderni piacentini», nella Serie politica Einaudi e in altre sedi. Se la sezione La contestazione nella scuola documenta l’impegno e il lavoro da lui profusi nei lunghi anni del suo insegnamento (ma sappiamo che ci sono, ancora inediti, molti materiali didattici che Renato preparava per i suoi corsi di filosofia e di storia), quella dedicata alla Nuova sinistra americana, alla guerra del Viet Nam e ai movimenti pacifisti contiene testi di grande rilievo sia documentario sia teorico (spesso gli spunti teorici più innovativi vanno cercati nelle note). Negli Sguardi sul passato, infine, Renato riannodava i fili della sua biografia rendendo omaggio a familiari come il padre Sergio Solmi, grande critico, poeta e scrittore del Novecento, a un amico fraterno come Luciano Amodio e ad altre figure di amici e compagni come Delfino Insolera (a cui il libro è dedicato), Raniero Panzieri (che interagì intensamente con Renato nei primi anni ’60), Sergio Caprioglio e altri ancora.

Per ricordare il fondamentale contributo teorico (non so quanto recepito allora e in seguito) che Renato offrì alla nuova sinistra italiana degli anni ’60, concludo citando integralmente, a mo’ di esempio, una nota a piè di pagina tratta dal saggio La nuova sinistra americana, il lungo saggio politico scritto per i «quaderni piacentini» cinquant’anni fa, definito semplicemente da Renato «una rassegna di testi».

Vorrei cogliere l’occasione per sottolineare le qualità di stile, di evidenza, di estrema franchezza e semplicità, che caratterizzano, in generale, questi contributi degli studenti. Anche dal punto di vista formale, e indipendentemente dalle posizioni sostenute, che possono sembrare, in qualche caso, addirittura riformistiche, si respira un’atmosfera di chiarezza rivoluzionaria. Il gergo sociologico di origine accademica, che si poteva leggere, in passato, anche sulle pagine di queste riviste – ad eccezione, beninteso, della «Monthly Review», che ha sempre unito all’alto livello dell’analisi teorica e politica una forma letteraria esemplare per lucidità e forza espressiva –, e che testimoniava di per sé, e indipendentemente dal valore e dal contenuto delle posizioni espresse, dell’isolamento degli intellettuali e della loro separazione dalla vita sociale, sembra quasi completamente e miracolosamente scomparso. L’esperienza reale, il contatto coi problemi fondamentali della società americana, e il nuovo atteggiamento politico e morale che ne deriva, hanno avuto anche l’effetto di valorizzare e di rendere attuali, dando loro un timbro e una freschezza nuova, tutta una serie di aspetti tradizionalmente positivi della formazione intellettuale e del «carattere» americano (ma che, in un contesto diverso, possono assumere tutt’altra funzione): dallo spirito pragmatico e oggettivo, che chiama le cose col loro nome e rifugge dalle perifrasi e dalle evasioni ideologiche, a un modo semplice e naturale di dire «io» e di affermare la propria individualità e indipendenza non al di sopra di quella degli altri. Ciò è particolarmente evidente nei contributi di semplici militanti; mentre gli intellettuali e i teorici del movimento continuano, a volte, a servirsi di un linguaggio più elaborato e complesso.