Recensioni / L'orso perduto

Pubblicato prima in Francia da Futuropolis-Gallimard, poi in Italia dal prestigioso Quodlibet, La storia dell'orso figura tra i titoli a fumetti più importanti degli ultimi dieci anni e per questo ne riparleremo. È un punto d'arrivo sia del percorso artistico di Ricci sia del fumetto e delle arti visive in generale, cinema compreso. Prendendo spunto da un fatto di cronaca – un orso bruno che deambulava tra Germania e Norditalia divorando pecore – l'autore costruisce una delle più potenti metafore del nostro stato attuale d'incertezza e d'indefinitezza, con la forza e l'originalità che solo il fumetto in questo momento riesce a trasmettere. Opere come quelle di Andrea Bruno, Giacomo Nanni, il Gipi di Una storia, e soprattutto il Lorenzo Mattotti di Chimera, Hansel e Gretel, Oltremai. Quando Ricci dipinge
in un clima del tutto onirico i suoi orsi-panda che sembrano tanto umani e i suoi conigli-uomo che sembrano ben poco umani, compie un'operazione di fusione di una parte importante della memoria visivo-pittorica moderna, in particolare un concentrato densissimo e magmatico di pittura teutonica, di colata lavica dal sapore ancestrale: da Alfred Kubin all'Urlo di Munch. Come con il Mattotti di Oltremai, qui si esce dal citazionismo postmoderno per andare "oltre". L'orso che sembra un panda deambula infatti con persistenti occhi vuoti e si pensa alla bocca ovale dell'urlo munchiano come evocazione (quasi sciamanica) e non citazione. Sembra perduto come tutti noi, come se andando "oltre", Disney e Miyazaki fossero entrati per sempre nell'ombra, non per essere statici ma per un viaggio infinito di conoscenza.