Recensioni / Il poeta del senso perso

"L'istrice, attrice illustre, / recita parti tristi / con occhi lustri lustri / inchiostrati di bistri". Questa breve poesia, che entra subito nel circolo della memoria e invita all'emulazione, è un tipico esempio di quei "Versi del senso perso", avvolti da disegni serpentini, che negli anni Settanta e Ottanta sono stati lasciati in eredità alla cultura italiana da Toti Scialoja (1914-1998), e che gli happy few a cui è stato concesso rigirarseli in testa, nell'infanzia o nell'età adulta, hanno messo subito accanto alle filastrocche di Rodari, più spericolate nell'invenzione fantastica e più castigate in quella fonica. Questi caratteri hanno viceversa favorito la loro liquidazione da parte della cultura ufficiale, che in casi del genere è dispostissima a spendere lodi iperboliche ma non a prendere davvero sul serio gli autori, e che nel suo canone ha accolto dunque solo lo Scialoja pittore, senza accorgersi di quanto ha in comune col poeta: cioè, in sostanza, la continua tensione tra espressionismo e astrazione geometrica, tra informale e formalismo, tra gusto delle simmetrie e visioni sinistre, mostruose, smisurate. Ma come nasce, la contagiosa macchina allitterante che produce istrici imbistrate sulla scena? "La parola-melograno. Tutto sta lì", ha spiegato Scialoja. "Bisogna trovare quella parola, e poi, come i chicchi di un melograno, tutte le altre parole gli vanno intorno". A partire da un termine-totem ci si lascia trasportare sul tapis-roulant delle associazioni, lasciando che il significante solletichi il significato, e che il significato rifinisca poi le trovate sonore: finché, come succede nei solitari riusciti, non resta nessun chicco spaiato. In questo laboratorio poetico ci guida oggi Eloisa Morra con "Un allegro fischiettare nelle tenebre" (Quodlibet), un ritratto dello Scialoja illustratore e lirico "del senso perso" corredato da preziosi materiali d'archivio. Davanti al suo personaggio, la Morra ripropone subito i consueti dilemmi: "Pittore o poeta? Poeta per adulti o per bambini? Autore comico o serio?". Le risposte più energiche, contro la tendenza a chiudere tra ludiche parentesi o a dividere in compartimenti stagni la sua poesia, sono venute da Giovanni Raboni, che ha indicato in Scialoja uno dei lirici più originali del secondo Novecento, e ha cercato di assegnargli il posto che non avevano saputo garantirgli altri importanti ma estemporanei sponsor: Manganelli, Arbasino, e soprattutto Calvino, che lo considerava il primo erede italiano di Lear e Carroll, della tradizione inglese dei limerick e dei nonsense. Introducendo le "Poesie" Garzanti, che raccolgono l'altro versante, diciamo notturno, della produzione scialojana, Raboni avvisava che la letteratura non è per il pittore un violino d'Ingres, e che nella sua poesia non si dà soluzione di continuità tra toni umoristici e saturnini, tra "le buie ceneri dell'esperienza e il pulviscolo d'oro dell'immaginazione". Ma per capire da dove viene questa miscela, seguiamo la formazione del giovane artista descritta nei dettagli dalla Morra. Non è irrilevante, ad esempio, sapere che Toti è figlio di un'ottima borghesia accademica e ministeriale. Ancora di più conta che la madre frequentasse Trilussa, e che un suo zio fosse Trompeo, pacioso erudito e francesista stendhaliano. Questo ambiente spiega almeno in parte la tranquilla disinvoltura inventiva di Scialoja: l'agio socioculturale, il liquido amniotico delle arti lo hanno evidentemente preservato dalla frenesia di farsi largo a ogni costo tipica degli intellettuali piccolo-borghesi, trasmettendogli un ancestrale "amore per la vita sgombro da ogni ansia di riuscita". Senza queste eclettiche sollecitazioni estetiche non si capirebbero le sue precoci prove di scrittura, in cui affiorano già i due ingredienti fondamentali dei futuri lambicchi in versi: l'artigianato goliardico della letteratura "minore", e le vertigini mallarmeane. Appena decenne, Toti usa il pennello, scrive "strofette comico grottesche" sugli animali, fonda giornalini e riunisce società gianburraschesche. Ma qui, sulle sollecitazioni famigliari s'innesta una cultura più diffusa. Questo artista versatile cresce infatti mentre sulla stampa italiana si moltiplicano le storie illustrate e i cruciverba di marca anglosassone su cui subito ironizza l'elzevirista Cecchi: quelli della Lettura del Corriere, e soprattutto quelli del Corriere dei Piccoli, che anche Calvino, Zanzotto e Dossena ricordano come una vera e propria "droga". Un'intera generazione si forma fantasticando con un occhio alle strofe e uno ai disegni dei nuovi inserti: e se c'è chi, come Toti, prova presto a cimentarsi col genere composito della striscia, c'è anche chi, come il futuro autore del "Castello dei destini incrociati", lega le immagini in una storia tutta sua ancora prima di imparare a leggere. La stampa popolare è insomma un prodigioso pozzo di acculturazione sotterranea; ed è, soprattutto, un bacino di novecentismo umoristico, falotico, dominato dalle buffe e sulfuree figure d'almanacco che Montale ritrovava allora in Delfini. Nell'Italia del fascismo e dei mass media, del classicismo spettrale e del design razionale, l'Ottocento macchiettistico e linguaiolo di Giusti e Fucini incontra il surrealismo tiepido di Palazzeschi, mentre la filastrocca palazzeschiana si mischia a sua volta col fumetto; Bilbolbul confina con Lear, e Campanile col poeta-pittore Antonio Rubino che incantò Calvino e Fellini; il marionettismo di Tofano stinge sulle gag del cinema muto, e la provincia strapaesana proietta l'ombra del "liberty nero" di Loria, Barilli e Landolfi. Il retroterra di molti intellettuali impostisi durante il boom va cercato in questo immaginario che riduce all'assurdo la modernità decadente; e anche Stevenson, dal quale sono precocemente stregati sia Calvino che Scialoja, propone in fondo un Ottocento ridotto all'assurdo, o come dice il poeta-pittore a un "teatro dei burattini" la cui moralità è tutta calata nel ritmo. Altro tratto peculiare dell'atmosfera novecentista è poi lo scambio continuo tra pratiche figurative e letterarie, ben rappresentato a Roma dalla Galleria La Cometa del poeta De Libero, che forse stronca i primi tentativi letterari di Scialoja. È in questa Urbe scipioniana color pèrso, dove si addensa il clima cupo e vacanziero degli anni Trenta, che il ventenne Toti disegna per i "Sogni del pigro" di Moravia una copertina già incentrata sul motivo dell'uomo-animale. Ma simboli di questa contiguità tra le arti sono soprattutto Longanesi e Maccari, che con le loro caricature collegano la cultura d'avanguardia alla cronaca d'attualità: e Scialoja esordisce proprio sul Selvaggio, al tempo del "Mar delle blatte" del dialogico Landolfi, con un "Dialogo triste" tra un pittore e un verme. È un pezzo mortuario-mistico, oltre che sardonico, dove il verme di ragazzoniana memoria spunta per associazione fonica da un tubetto di vermiglione (e "vermiglio" è parola del Barilli verdiano amatissimo da Scialoja). Negli anni Trenta-Quaranta, il giovane autore prova anche a gareggiare col Maccari epigrammista, costruendo calembour sui nomi dei pittori e sfottendo poi il loro passaggio neorealistico dalle "bottiglie" alle "battaglie". Come si vede, quel ventenne è oltretutto un notevole talento critico: e più distesamente lo confermano le sue recensioni. Di Bacchelli, con metafora perfetta, scrive che i suoi personaggi stanno "nascosti come le uve passe nella polpa bianca del panettone; a masticare si rinvengono ogni tanto, dolci dolci, ma la sostanza rimane (...) nel panettone"; e di Mafai, che le sue pennellate sono "sangue o sugo". Mentre disegna e ironizza, Toti accumula però anche un ombroso e lavoratissimo deposito di prose poetiche, il cui tono fa pensare a un ossimorico "rondismo del profondo". Le pubblica finalmente nel '52, sotto il titolo "I segni della corda": ma è un esordio che coincide con un addio, al mondo '900 e alle aspirazioni giovanili. Negli anni Cinquanta Scialoja diventa un nome dell'astrattismo internazionale; e solo nel decennio successivo, con gusto più vicino all'infanzia che alla giovinezza, riscopre la poesia. Succede a Parigi: dove i vocaboli italiani, straniati dal contesto, gli appaiono di colpo come misteriosi oggetti solidi. "Ciottoli", dice con una parola usata poi nelle "Poesie", dove stabilirà che "solo il ciottolo è più espressivo" del profilo dei gatti: e la metafora spiega benissimo la materica ma rotonda levigatezza del suo stile. La nuova stagione poetica comincia coi nonsense delle lettere inviate ai nipotini, cioè con la cucina di singoli pezzi d'arte a tecnica mista (collage di parole, disegni, carte speciali) che riflettono bene l'idea fisica e sensuale che Scialoja ha della poesia. Questi "ciottoli" vengono poi organizzati in un quaderno e nei libri degli anni Settanta, con un lavoro di varianti già studiato da Paola Pallottino. Nei versi come nel tratto grafico, l'autore cerca via via soluzioni più intense attraverso una serie di aggiustamenti molto duttili, dove l'artigianale ricerca dell'efficacia fa tutt'uno con quella dell'esattezza, e soprattutto con la fedeltà al clinamen da cui è affiorata la prima molecola linguistica. La poesia e il testo a fronte dell'illustrazione, disposta in modi sempre inattesi intorno ai versi, sono spesso inscindibili: l'uno non solo chiosa l'altra ma la potenzia, la dilata. La Morra indica qui i debiti con Lear, l'avvicinamento iconico alla perturbante "Commedia bestiale" di Grandville – increspata da acidi maccariani o da spezie orientali – e la semplificazione inquietante, emblematica ma insieme ironica di disegni originari spesso caratterizzati da una quasi ingenua e teatrale minuzia. Quanto ai testi, salta agli occhi il legame fonico tra bestie e toponimi "tappe obbligatorie, Zara e Orvieto" – e la comparsa dello zoo "piccolo-borghese (pulci, blatte, zanzare, pidocchi, ragni)" già evocato da quel Trilussa, di cui si avverte anche la lezione stilistica, nella "capacità combinatoria" come nella compresenza di satira e lirismo ad acquerello. Alcuni animali semidomestici e semiselvatici sono particolarmente cari all'autore perché sfidano l'ingegno a creare rime esotiche e acrobatiche: meglio insomma, più che i corrivi gatti, i topi e le lepri, i vermi e le carpe. I loro nomi funzionano già come costrizioni metriche: strappano la fantasia allo scacco delle varianti illimitate, e favoriscono la riunione dei chicchi intorno a un nucleo pregnante. A questo proposito, andrebbe indagata l'influenza esercitata su Scialoja, oltre che dai quinari di Giusti, dai lussuosi tecnicismi pascoliani e dannunziani ereditati da Gozzano e dall'autore degli "Ossi" (le "Poesie" più contratte, col loro "tu" e i loro "deliri", fanno pensare a un Montale rimasto nel giovanile solco fantasista): le sdrucciole, le rime ipermetre, i termini rari incastonati come perle in un tessuto più leggero... E a partire da qui, sarebbe interessante capire anche quanto il metricismo di Scialoja abbia a sua volta suggestionato Raboni o altri. Ma ogni discorso sul riutilizzo di certe forme storicamente consolidate va commisurato al modo singolare con cui queste forme vengono assimilate dal poeta del "senso perso". Non è certo un caso che la sua vena lirica sia riemersa in una corrispondenza coi nipoti. Dei bambini, a Scialoja interessa la "inesauribile ma limitatissima astuzia" immersa in un tempo mitico, ripetitivo, ipnotico, e la "virtuosistica facoltà di sdoppiamento e di immedesimazione". Ora, è evidente che questa attitudine istrionica appartiene anche alla sua prassi di poeta incline ad appropriarsi di una stratificata tradizione letteraria, ma ben deciso a sottrarsi ai suoi diktat. La sua scrittura infatti, come tutti i seri giochi infantili, distanzia la Storia con una implacabile epoché. Dice bene la Morra, quando parla di versi "ricolmi di echi letterari, eppure come nati da se stessi", e di una freschezza "barbara" che convive con un forte senso "delle convenzioni di genere". Il risultato è una poesia insieme gratuita ed economicissima, satura di una cultura resa a un tempo irriconoscibile e memorabile. È, insomma, l'esatto contrario di ciò che la critica egemone chiede da decenni alla letteratura: il contrario dello sperimentalismo "per partito preso" e della troppa poesia avara ma antieconomica, povera ma culturalista, che mancando di una intrinseca tenuta cerca legittimazioni al di là della pagina, magari in qualche confuso alibi teorico. Perciò Scialoja è distante dai neoavanguardisti, ma anche dagli orfismi insapori e dal programmatico squallore lombardo pure così caro a Raboni. Gioca coi suoni, ma non balbetta mai, e anzi mantiene un ferreo controllo razionale-sintattico perfino negli scatti in apparenza più arbitrari, nelle più aspre dissonanze. Un discorso parzialmente diverso meritano invece le ultime "Poesie" garzantiane, che sono ormai al di là di un tale classicismo opulento. Questi testi arresi, "informali", dove ogni emistichio si trascina per conto suo, ci mostrano uno Scialoja esametrico e lunare, rabonianamente onirico e sanguinoso, che si rivolge un'ultima volta agli anni Trenta per evocare bui cancelli o femmine stordite di follia, e che scopre la morte "sorella di un luogo comune". I versi del "senso perso", conclude la Morra, sono stati anche un talismano contro il male: "Un delirio minimo o ilare – un fischiettare nelle tenebre", li giudica Scialoja stesso. Ma perfino nelle "Poesie", le tenebre sono illuminate da una riserva di felicità indistruttibile, perché radicata nell'infanzia della lingua madre. Dappertutto, quindi, si mescolano fino alla fine le ceneri e il pulviscolo, la solitudine immedicabile di chi si congeda dalla vita e la lievità danzante di chi vede davanti a sé un'interminabile vacanza senza pensieri. Da una parte, nei "Versi del senso perso", ci si dice con fiera malinconia che "Quando la talpa vuol ballare il tango/il salone si svuota, ed io rimango". Dall'altra, nella testamentaria "Ballabili" delle "Poesie", Scialoja ci avvisa che "Nell'Inferno manca l'aria la polca si balla di furia / il valzer si esegue al contrario
sul parquet del Purgatorio / in Paradiso non si danza ci si sorride a distanza".