Capita che i poeti si rincorrano e si rispecchino nei modi più
sorprendenti e imprevedibili. Dylan Thomas, una delle grandi voci del
secolo scorso, in un'intervista del 1951 spiegava al proprio
interlocutore come l'ascolto di filastrocche avesse determinato
profondamente le sue prime impressioni sensoriali: «ciò che le parole
rappresentavano, simboleggiavano o significavano», afferma Thomas, «era
di secondaria importanza; ciò che importava era il loro suono la prima
volta che le udii sulle labbra dei lontani e incomprensibili adulti che
parevano, per qualche ragione, abitare nel mio mondo». In particolare,
l'autore di Under Milk Wood ricordava quanto lo affascinassero «la forma
e il colore e la misura e il rumore delle parole mentre scorrevano
mormorando, strimpellando, danzando e galoppando. Quella era l'età
dell'innocenza; le parole mi investivano impetuose, libere dall'impaccio
di associazioni banali o portentose; le parole erano spontanee,
sorgive, fresche di rugiada dell'Eden, mentre si materializzavano dal
nulla». Queste dichiarazioni di uno degli scrittori per molti versi più
disperati e tormentati della contemporaneità potrebbero benissimo essere
state rilasciate da un altro poeta certamente più solare e meno
autodistruttivo di Thomas, il suo coetaneo italiano – entrambi sono nati
nel 1914 – Toti Scialoja.
L'idea che le parole contribuiscano ad arricchire la realtà di suoni,
colori, forme e rumori ancor prima che di significati è infatti il
motore primo dell'attività poetica di Scialoja, come torna a ricordarci
il bel "ritratto" a tutto tondo dedicato all'artista romano da una
giovane studiosa, Eloisa Morra. Un allegro fischiettare nelle tenebre
(Quodlibet, Macerata 2015) ripercorre la biografia intellettuale e
artistica dell'autore di straordinari "versi del senso perso" come il
celebre «Il sogno segreto / dei corvi di Orvieto / è mettere a morte / i
corvi di Orte», prendendo le mosse dalle sue passioni infantili, a
partire da quella sorta di imprinting verbo-visivo che furono per lui le
filastrocche e i disegni insieme fantastici e geometrici di Antonio
Rubino, avidamente cercati e divorati sulle pagine del «Corriere dei
piccoli». L'ipnotico e memorabile ritmo delle strofette moraleggianti
che corredano le tavole del «Corrierino», rivista che svolse un ruolo
decisivo nella formazione dei bambini italiani di inizio Novecento, si
fonde armoniosamente nella mente del giovane Toti con stimoli
provenienti da ambiti ben diversi: l'educazione al bello garantita dai
familiari e dagli amici di famiglia, tra i quali Pietro Paolo Trompeo,
voce tra le più raffinate del primo Novecento romano; certa tradizione
“minore” e popolare della nostra cultura letteraria (la lezione
dialettale di Trilussa, il sottile umorismo di Giuseppe Giusti, il gusto
per il bozzetto robusto e sapido di Renato Fucini); la passione per la
narrativa d'avventura. Morra si sofferma giustamente sulla lunga fedeltà
che lega Scialoja alla figura di Robert Louis Stevenson, e in
particolare al suo classico L'isola del tesoro, letto e riletto negli
anni scoprendone a ogni attraversamento ulteriori livelli di profondità:
da bambino, Toti lo gusta come una perfetta macchina di emozioni,
travolgente e irresistibile; più grande, ne apprezza la compiuta
dimensione di capolavoro stilistico, impasto verbale di mirabile e
rapinosa musicalità, fino poi a coglierne e quasi mitizzarne lo statuto
di classico, di opera cioè dotata di assoluta perfezione e poesia.
È attraverso questa dettagliata e vivace analisi del clima culturale
entro cui si formano l’immaginario e le coordinate estetiche del giovane
Scialoja che Eloisa Morra ci consegna alcune delle più belle e
partecipate pagine che siano state scritte sul poeta romano. Meno
innovativi, ma comunque riusciti, puntuali e interessanti, sono i
paragrafi che l'autrice dedica alla poliedrica opera critica, grafica,
narrativa di Scialoja negli anni immediatamente precedenti e successivi
al secondo conflitto mondiale. L'attività di illustratore per Moravia, i
rapporti con la Galleria della Cometa e con l'ambiente pittorico
romano, le prove in prosa debitrici delle lezioni di Tommaso Landolfi e
Bruno Barilli, i folgoranti ritrattini pittorico-satirici apparsi su «Il
Selvaggio» di Mino Maccari rappresentano per molti versi esperienze
che, se da un lato testimoniano dell'ampiezza e della varietà degli
interessi e dei contatti di Scialoja, dall'altro fotografano bene il
gioco di spinte e controspinte che il milieu intellettuale del tempo
impone a Toti, il quale dal canto suo sembra fare il proprio ingresso
nell'età adulta senza troppa convinzione, quasi di controvoglia: come se
insomma la sua attività creativa negli anni della "maturità" non fosse
altro che una sorta di limbo, una parentesi racchiusa tra due prolungate
stagioni dell'infanzia (quella vissuta e quella poi "ritrovata" alle
soglie della senilità).
Se gli anni Cinquanta, che sono gli anni più fertili per lo Scialoja
pittore e intellettuale, trovano nel libro uno spazio ristretto, è
soprattutto ai decenni Sessanta e Settanta, quelli del riconquistato
diritto all'orizzonte ludico-infantile – il cui maggior manifesto resta,
per la nostra cultura, la palazzeschiana smorfia di E lasciatemi
divertire – che è dedicata l'ultima parte del volume, consacrata
perlopiù al rapporto testo-immagine nelle cosiddette raccolte per
bambini. Morra articola il proprio discorso prendendo in considerazione
sia volumi più strutturati come Tre per un topo (1969, recentemente
pubblicato sempre dai tipi di Quodlibet) che testi poco noti (come
l'inedito Prime pagine di un libro per bambini), allo scopo di
introdurre il lettore nelle stanze più segrete del vulcanico laboratorio
verbo-visivo di Scialoja, là dove si aggirano i campioni ottocenteschi
di quello che G. K. Chesterton chiamava the instinct of nonsense:
Jean-Ignace-Isidore Grandville, Edward Lear, Lewis Carroll. È imitando e
rielaborando il loro esempio che Toti ottiene di riossigenare la sua
lingua poetica e grafica, restituendo così alla propria opera la
freschezza delle percezioni infantili. In particolare, la sintetica ma
utile analisi che in uno degli ultimi paragrafi Morra dedica alle
tecniche compositive dei "versi del senso perso", con particolare
riferimento ai concetti di parole-melograno e paesaggi di parole, ben
dimostrano come buona parte dell’opera poetica di Scialoja tenda
strenuamente al recupero di quell'age of innocence di cui parlava Dylan
Thomas nell’intervista sopra riportata: quella sorta di incantato Eden
fonico e pre-concettuale dove, tanto per il poeta-pittore romano quanto
per il maestro gallese, le parole si materializzano dal nulla
mormorando, strimpellando, danzando e galoppando nelle orecchie di
coloro che soli hanno la possibilità di ascoltarle e viverle nella loro
fisica pienezza, ossia i bambini.