Gusto è l’ultimo volumetto di Giorgio Agamben pubblicato da Quodlibet.
Il titolo prende spunto dalla secolare tradizione che riconduce
“sapiente” e “sapore” ad una comune origine: sapiens dictus a sapore.
Agamben riprende un discorso che aveva intrapreso sin dall’inizio del
suo iter filosofico con opere quali L’uomo senza contenuto, Stanze e
Categorie italiane: mi riferisco alla riflessione sull’estetica, o
meglio, alla critica dell’estetica che vuole essere mezzo per una più
generale critica del presente e della metafisica occidentale, fondata su
una ricerca delle sue radici concettuali ed ideologiche.
Non stupisce allora che il punto di arrivo di questo libretto sia da
mettere a stretto confronto con il terzo capitolo di Stanze. Qui
Agamben, ragionando sui limiti della conoscenza, ricostruisce la teoria
del fantasma nella lirica tardo-stilnovista; questo fantasma – che altro
non sarebbe che la rappresentazione mentale dell’impressione che si ha
dalla vista della donna – costituisce una sorta di intermediario fra
anima e materia e permette di spiegare tutti gli influssi fra corporeo
ed incorporeo, compreso l’amore: «L’oggetto dell’amore è infatti un
fantasma, ma questo fantasma è uno “spirito”, inserito, come tale, in un
circolo pneumatico in cui si aboliscono e si confondono i confini fra
l’esterno e l’interno, il corporeo e l’incorporeo, il desiderio e il suo
oggetto» (Stanze, pag. 128).
L’amore, insomma, veicola una forma di sapere che, alle soglie dell’età
moderna, era parso ai poeti del Duecento come «intelletto d’amore» nella
figura/fantasma beatificante di una donna (Beatrice, per esempio, ma
anche tutte le altre madonne stilnovistiche) «in cui finalmente la
scienza gode e il piacere sa. Il mitologema di Eros è necessariamente
iscritto nel destino della filosofia occidentale, in quanto al di là
della scomposizione metafisica del significante e del significato,
dell’apparenza e dell’essere, della divinazione e della scienza, esso fa
cenno verso una salvazione integrale dei fenomeni» (Gusto, pag. 58).
Per meglio capire quanto detto è bene ripartire dall’origine del
ragionamento di Agamben, ma anche dall’origine del discorso filosofico
sul gusto e sull’amore. Platone aveva fissato nella figura demonica di
Eros questo sapere nel quale verità e bellezza comunicano. Il problema, a
bene vedere, è quello del rapporto che intercorre fra sapere e piacere;
Kant nella Critica del giudizio annotava: «Sebbene questi giudizi [di
gusto, Ndr] non contribuiscano per nulla alla conoscenza delle cose,
essi appartengono nondimeno unicamente alla facoltà di conoscere e
rivelano un’immediata relazione di questa facoltà col sentimento del
piacere».
Se andiamo a ripescare la teoria platonica dell’amore vediamo come
questo sia strettamente correlato al problema della conoscenza: l’uomo è
innamorato solamente nella misura in cui desidera qualcosa che non ha, e
il desiderio per eccellenza è quello per le cose belle che lo porta al
desiderio di arrivare a contemplare le idee – e l’idea di bellezza nello
specifico. La contemplazione, nel sistema platonico, equivale in una
certa misura alla conoscenza; tale contemplazione, si sa, è però negata
all’uomo: finché è mortale può al massimo aspirare a diventare filosofo,
cioè amante della sapienza.
La bellezza non può essere conosciuta, la verità non può essere vista.
Questo è vero anche su un livello più basso e accessibile, questo sì,
all’uomo: il contenuto della percezione della bellezza può essere visto,
ma non conosciuto (è impossibile, per esempio, dare una definizione
positiva di “cosa bella”); il contenuto della verità, chiamiamola
impropriamente, scientifica può, al contrario, essere conosciuto, ma non
può essere visto. L’episteme, dunque, «di per sé non può che “salvare
le apparenze” nei rapporti matematici, senza pretendere di esaurire il
fenomeno visibile nella sua bellezza […] questo intrecciarsi di una
duplice impossibilità definisce l’idea e l’autentica salvazione delle
apparenze che essa attua nell’altro sapere di Eros» (Gusto, pag. 19).
Insomma: il sapere deve costituirsi come “amore del sapere” e
presentarsi come filosofia, cioè come medio fra scienza e non-sapere,
fra un avere e un non-avere. Ad Eros era attribuita la sfera della
divinazione, cioè di un sapere che non poteva rendere ragione di sé e
dei fenomeni, ma concerneva ciò che in essi era semplicemente segno ed
apparenza (è il caso, per esempio, della pacifica convivenza di
astronomia ed astrologia, almeno fino al XVII secolo quando, con
Descartes, la sfera della divinazione è venuta meno, salvo poi
riemergere sotto altre forme che vedremo in seguito).
Il problema del gusto, insomma, per Agamben è un problema di conoscenza e
di piacere, o meglio, dell’enigmatica relazione fra la conoscenza e il
piacere.
Ciò che il divinante sa, per tornare alla teoria platonica, è che c’è un
sapere che egli non conosce (può valere come esempio il “non-sapere” di
Socrate nel quale identifica il contenuto del proprio sapere e pone in
un daimon, ovvero l’altro per eccellenza, il soggetto del sapere che
egli proferisce). La domanda ultima cui la riflessione sul bello rimanda
è l’interrogazione sul suo proprio soggetto: chi è il soggetto del
sapere? Chi sa?
Per rispondere a questa domanda Agamben si serve di un concetto che
riprende dalla teoria della significazione di Lévi-Strauss: il
«significante eccedente». Chiarire la teoria di Lévi-Strauss qui rischia
solamente di complicare ulteriormente il nostro discorso, basti dire
che lo strutturalista francese postula un rapporto di inadeguatezza
fondamentale fra la significazione e la conoscenza, che si traduce in
una irriducibile eccedenza del significante rispetto al significato, la
cui causa è iscritta nell’origine stessa dell’uomo in quanto Homo
sapiens. Su questo significato eccedente si fondano le scienze
divinatorie, cioè quelle che hanno per oggetto il sapere che non si sa.
Al polo opposto abbiamo le scienze modernamente intese, cioè quelle che
hanno per oggetto un sapere che si sa, che si fondano quindi
sull’adeguatezza di significato e significante. Agamben propone di
chiamare il primo tipo di sapere semiotico (in quanto privo di soggetto e
che si può solamente riconoscere) e il secondo, semantico (in quanto ha
un soggetto e di cui si può dar ragione).
A fronte di questo ragionamento, Agamben arriva al punto più
interessante – almeno a mio avviso – del suo discorso. Dopo aver
apparentano la filologia (come nasce nel XIX secolo) alla divinazione,
un’altra scienza rivela un’inaspettata correlazione con l’estetica, se è
vero che il gusto non era soltanto un sapere che non si sa (ovvero un
giudizio con cui non si conosce nulla), ma anche un piacere che non gode
(la comunicabilità universale di un piacere – scrive Kant – implica già
nel suo concetto che il piacere stesso non debba essere proprio
godimento), ma giudica e misura: si sta parlando dell’economia politica.
«Poiché, come l’estetica ha per oggetto il sapere che non si sa, così
l’economia politica ha per oggetto il piacere che non si gode. Se essa
comincia, infatti, con l’identificare come proprio ambito quel “piacere
interessato” che Kant escludeva rigorosamente dai confini del bello,
l’insegnamento di Marx non è stato invece quello di mostrare (ponendo al
centro delle sue analisi […] la forma-valore e il carattere feticcio
della merce) che essa si fonda in realtà non tanto sul valore d’uso
(sull’utile, sul piacere goduto), quanto sul valore di scambio, cioè su
ciò che nell’oggetto non può essere né goduto né afferrato: sul piacere,
appunto, che non si ha?» (Gusto, pag. 51).
La forma-valore, continua Agamben, è un puro significante che indica
semplicemente la necessità di un contenuto simbolico supplementare e di
un piacere supplementare, il cui calcolo costituisce l’oggetto delle
scienze economiche. Homo aestheticus ed homo oeconomicus, estetica ed
economica politica, sono le due metà (rispettivamente: il sapere che non
si sa e il piacere che non si gode) che il gusto aveva cercato di
tenere unite nell’esperienza di un «sapere che gode e di un piacere che
sa, prima che la loro esplosione e la loro liberazione contribuissero a
mettere in moto quei giganteschi fenomeni di trasformazione che
caratterizzano così essenzialmente la società moderna».
Il campo lasciato vuoto dalla divinazione, infine, viene ad essere
riempito anche da un’altra scienza prettamente novecentesca, la
psicanalisi. Questa, ponendo come soggetto del sapere un Es, così come
lo strutturalismo e alla linguistica, indica un “Altro” come soggetto
della conoscenza. Il problema allora è mettere in comunicazione l’Io e
l’Altro e quindi fra il sapere che non si sa e il sapere che si sa.
L’uomo moderno, però, riesce sempre meno a padroneggiare un piacere ed
un sapere che non gli appartengono: fra il sapere del soggetto (l’Io) e
il sapere senza soggetto (l’Altro), insomma, si apre uno iato, una
frattura che la tecnica e l’economia cercano invano di colmare.
È bene tornare, a questo punto, di nuovo a Platone: alla luce di questo
si può forse comprendere il senso di un amore del sapere e di un sapere
d’amore, che non è né sapere del significato né sapere del significante,
né conoscenza, né piacere e di cui il concetto di gusto costituisce
una tardiva incarnazione in quanto si inserisce nella frattura fra
significante e significato che la semiologia ha finora occultato.
«Poiché solo un sapere che non appartenesse più né al soggetto né
all’Altro, ma si situasse nella frattura che li divide, potrebbe dire di
aver veramente “salvato i fenomeno” nel loro puro apparire, senza né
riportarli all’essere e alla verità invisibile, né abbandonarli, come
significante eccedente, alla divinazione» (Gusto pag. 57). È questo il
sapere legato all’Eros platonico, ed è questo il sapere dell’intelletto
d’amore di cui parla Dante nella Vita Nova. E vorrei concludere proprio
tornando a Stanze e allo Stilnovo: nel linguaggio poetico inteso come
dettato d’amore (si ricordi da Pg XXIV: I’ mi son un che, quando /Amor
mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando),
gli stilnovisti cercano di colmare la frattura metafisica fra visibile e
invisibile, corporeo e incorporeo, apparire ed essere.
La distinzione semantica fra significato e significante che concilia la
frattura fra il desiderio e il suo inafferrabile oggetto è scossa da
Eros e poesia, qui legati e coinvolti in una comune appartenenza: «il
fantasma genera il desiderio, il desiderio si traduce in parole e la
parola delimita uno spazio in cui diventa possibile l’appropriazione di
ciò che non potrebbe altrimenti essere né appropriato né goduto»
(Stanze, pag. 153).