È un'impresa disperata tentare un inventario di libri, opuscoli,
trattati dedicati in questi ultimi mesi alla gastronomia, a nuove
prospettive in cucina, a considerazioni sugli alimenti e a cose simili.
L'Expo di Milano ha favorito il fenomeno. Il quale ha ora raggiunto le
librerie dopo aver conquistato non pochi spazi televisivi e in Rete. Si
direbbe che sempre più persone siano ormai d'accordo con quanto scriveva
Anthelme Brillat-Savarin nella “Fisiologia del gusto”: “La scoperta di
un piatto nuovo è più preziosa per il genere umano che la scoperta di
una nuova stella”. Eppure anche in questa letteratura dedicata alle
cibarie, e alle mille considerazioni che le riguardano, c'è qualche voce
dissonante, ironica, tendente a recare riflessioni controcorrente. Chi
scrive desidera segnalare tre libri che si possono considerare delle
deliziose irriverenze nei confronti di talune mode attuali.
[...] Il terzo titolo è di un pensatore vero, un filosofo degno di
questo nome: Giorgio Agamben. Si intitola “Gusto” (Edizioni Quodlibet,
pp. 72, euro 10). Sono pagine che vengono da lontano, o meglio nacquero
per l'”Enciclopedia Einaudi” nel 1979; oggi ritrovano una straordinaria
attualità. Agamben riflette appunto sul senso “più basso” che per
Aristotele l'uomo condivide con gli altri animali (nell'”Etica
nicomachea”) e che anche Hegel non apprezzava particolarmente (“Non si
può degustare un'opera d'arte come tale”, scriveva nell'”Estetica”).
Agamben ci ricorda che il gusto, in ultima analisi, andrebbe considerato
come il sapere che non si sa e il piacere che non si gode. Certo, sono
considerazioni che si scoprono dietro molte pacifiche apparenze. In un
mondo convinto che questo senso sia anche l'organo della bellezza e di
buona parte dei nostri godimenti.