Ne La banda dei sospiri bastano poche righe perché il lettore precipiti
in un libro Cuore a rovescio, dove il dramma è stravolto in una satira
dai toni surreali e divertenti. In un simile teatro proletario si muove
il protagonista, detto Garibaldi, insieme a una famiglia e una cerchia
di conoscenti che pare uscita dal cabaret tragicomico e inesauribile dei
fratelli Marx. «Un giorno è arrivato a casa nostra uno strano signore
vestito di blu col berretto a quadretti, che ha detto di essere un ladro
internazionale. Questo signore col berretto a quadretti aveva viaggiato
il mondo, ed è stato in America e tornato indietro due volte, andando
dappertutto a giocare a carte e guadagnando immensi tesori, poi persi
con le donne e con i divertimenti». Tutto ciò che di immediato tende al
verbo raccontare, in Celati resta «fermo nell’erba del fosso disteso, a
riposarsi della fatica di prendere botte», e gestisce il discorso come
un meccanismo di eventi fisici.
«(…) Ma quando facevo un sobbalzo lei grida picchiandomi anche di più
con la ciabatta, e poi con improperi e parole sconce perché la disturbo.
Allora io per non disturbarla mi lasciavo picchiare in pace e pensavo
solo a non fare sobbalzi se viene su il singhiozzo. Non potevo mica
pensare ad altro si capisce, per cui ho dovuto sopportare in silenzio
tutta una serie di abbracci e di fiatate che questa qui mi faceva sulla
faccia. E poi mi dava ordini come un generale, di cavarmi le braghe in
fretta, e di mettermi a cavallo di lei, e poi di muovere le mie chiappe,
sotto la minaccia della ciabatta». L’uso arbitrario dei tempi e della
punteggiatura aumenta l’enfasi comica, le gags grammaticali come la
caduta degli articoli e l’assedio dei pronomi superano il senso volgare
di errore e diventano atto di produzione di uno spettacolo. Perché
questo è, né più né meno, La banda dei sospiri.
Le avventure sbilenche di Garibaldi sono il passepartout per entrare in
un luogo più intimo, con un pathos eversivo ed esilarante che sa di
sogno, di realistica allucinazione, e diverte perché possiede la stessa
tensione che sta fra l’incubo e l’ombra, fra l’ingenuità e la
goffaggine.
Insomma, ci sono libri di cui non si può parlare: lo fanno da soli.
Qualsiasi definizione sarebbe un orpello fuori misura, un imbroglio
riduttivo. È necessario viverli, sperimentarne i temi e le figure, e
quel carico di allegorie, costumi, credenze, stereotipi e istanze
sociali a cui danno voce.
In una lunga intervista con Raffaello Palumbo Mosca, l’autore chiariva
il proprio pensiero già molti anni or sono: «È il modo di guardare il
mondo che conta, non tanto cosa si guarda».
Per chi ama l’inventiva soverchiante e favolistica, senza rinunciare
alla poetica giostra del sorriso, l’editore Quodlibet ha ripubblicato
l’opera nella versione originale – che fu Einaudi – del 1976. Un romanzo
che coglie il carattere discontinuo dell’esperienza, per dirla con il
Celati «scritto per curarsi da una nevrosi. La scrittura, in fondo, è un
tentativo di uscire da sé per curarsi. Altrimenti non capisco perché
avrei passato tante ore della mia vita scrivendo e riscrivendo cose che
sapevo già respinte in partenza dalla società letteraria ufficiale».