A mezzo secolo di distanza dal suo dirompente e provocatorio esordio sulla scena letteraria europea (I calabroni e Insulti al pubblico, 1966) e dopo aver pubblicato, nel 2008, quello che probabilmente è il suo maggiore romanzo (La notte della Morava),
dal retiro francese di Chaville dove vive dagli anni novanta, Peter
Handke continua a tessere le trame poliedriche oltre alla narrativa,
numerosi pamphlet, trattatelli, saggi e drammaturgie di un'opera in
costante falso movimento: da un testo all'altro, temi e situazioni
ricorrenti si ripetono come in una suite dove a contare sono più le
variazioni tonali che i tempi. Al centro di questa costruzione rarefatta
e dissimulata, le diverse interpretazioni di quel personaggio (non
propriamente un alter ego) che in Infelicità senza desideri
(1972) di sé diceva: «io non mi allontano, come succede di regola, una
frase dopo l'altra, dalla vita interiore delle figure descritte; per
contemplarle liberato e solenne dall'esterno, quasi ini setti finalmente
incapsulati; ma scrivendo cerco di accostarmi, con serietà ferma e
costante, a qualcuno che non posso afferrare compiutamente con nessuna
frase, sicché devo ricominciare sempre daccapo, senza arrivare mai all'usuale,
distaccata prospettiva dall'alto». Partendo da queste premesse, ancora
oggi Handke arricchisce il suo lento ritorno a casa di tappe tanto
circoscritte quanto centrali nel processo di pacificazione identitaria
di un uomo cui, nemmeno trentenne, importava più vivere da scrittore che
essere uno scrittore.
Nato nel 1942 in quella Carinzia che vent'anni prima, dopo un tentativo
di annessione coatta da parte della Jugoslavia, aveva
optato-volontariamente, e con il beneplacito della Società delle
Nazioni, per l'Austria, Peter Handke ha vissuto in prima persona lo
scacco storico-geografico di una zona di confine in cui è soprattutto la
lingua a contendersi l'appartenenza patria dei suoi abitanti: da un
lato, infatti, la cultura egemone tedesca, dall'altro la minoranza
slovena (per lo scrittore di Griffen tutt'uno con la storia materna) e,
in mezzo, un dialetto spurio, bastardo.
Ed è proprio questa situazione che, nel 2010, per i tipi di Suhrkamp,
Handke ha descritto in un testo appena tradotto in italiano da Angela
Scròfina e Ylenia Carola: Ancora tempesta (Quodlibet,
pp. 132, euro 15,00). Aperto da una citazione tratta da I grandi cimiteri sotto la luna di Georges Bernanos, e concepito come testo teatrale, Immer noch Sturm
(così in originale, da un verso scespiriano del Re Lear) è ripartito in
cinque scene o movimenti in cui, su un palco con in primo piano un
albero con novantanove mele e una panchina, si alternano gli otto
protagonisti di un dramma domestico che concepisce il dialogo, alla
maniera classica, come forma di riconoscimento. Sullo sfondo, i profili
frondosi della brughiera dello Jaunfeld. Degli otto personaggi, quello
sempre presente è un anonimo «Io» (dietro il quale non si fatica a
identificare, per quello che conta, lo stesso Peter Handke) che si
attribuisce, significativamente, l'attributo di «discendente»;
significativamente perché le altre voci appartengono tutte alla sua
genealogia personale: ci sono, infatti, i nonni, la madre e i suoi
quattro fratelli, Gregor detto «Jonatan», il maggiore, Valentin, il
mediano, Benjamin, il minore, e Ursula, ovvero «Sneema». Dei maschi,
solo Valentin è sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale, e di quel
periodo l'io narrante, che torna indietro nel tempo insieme ai suoi
famigliari, racconta l'unico episodio di resistenza partigiana svoltosi
entro i confini del Reich hitleriano, quello dei «Quadri verdi»,
nient'altro. che un «confuso e sperduto» gruppo di giovani per i quali «la guerra mondiale degli svevišvabi,
come dalle nostre parti venivano chiamati i tedeschi non era la loro».
Pure, a meglio risaltarne il senso intimo, i riferimenti cronologici,
puntuali nel testo di Handke (il 1936 ad esempio, o il '43, anno della
Terza Conferenza di Mosca, che fece esplicito riferimento alla lotta
clandestina contro il nazismo in Austria), sono presto sconfessati da una deliberata indeterminatezza
(«oggi, nel Medioevo, o quando», «in una luce senza stagioni» o, ancora,
«è trascorso del tempo, non so più quanto. Non è più buio ma neppure si è fatto giorno»).
Se come narratore soprattutto a partire da L'ora del vero sentire,
del 1975 Handke vede per fatti, come drammaturgo vede, e dunque
ragiona, per situazioni, e soltanto dalla concatenazione oggettiva
dell'una nella successiva gli nasce una misura lirica apparentemente
priva di emotività ma non di emozioni: le atmosfere non sono né
tratteggiate né descritte, ma ciò che viene rappresentato le lascia,
nella sua essenzialità, come cadere da un passato remoto di cui è
inutile ricercare l'esatta collocazione temporale.
Quanto resta è solo la testimonianza, ossia la lingua: una lingua che
articola tanfo il discorso del potere (il tedesco) che quello della
libertà (lo sloveno). Una lingua difesa, vilipesa e imbracciata come un
nostalgico vessillo per tornare, di nuovo, a chiamare le cose con il
loro nome; perché le cose sono la lingua con cui le nominiamo e la vita
non è la Storia, ma una contraddizione, sembra dirci Handke sul finale
in cui più o meno tutti scompariamo «in mezzo e dietro gli altri,
riconoscibili unicamente per il gesto della mano con cui continuamo a
salutarci».