Recensioni / Quanto valgono le cose che non sono di nessuno?

È Il valore delle cose il titolo del fascinoso saggio di Yan Thomas storico del diritto romano nato nel 1943 e morto (troppo presto) nel 2008. Intanto cosa sono le cose? Certo, sono entità dotate di natura fisica e metafisica (come predetto da Aristotele) insieme a tutti gli altri fatti e eventi del mondo. Ma questo non è vero per il diritto (almeno nella lettura che Thomas fa del Diritto romano) per il quale le cose non esistono se non come prodotto di un dispositivo formale che le liberi della loro singolarità e le traduca nel linguaggio del diritto.
Più chiaramente è il diritto che assegnando alle cose un nome (specificandone la natura e la funzione) le fa esistere e legittima come reali.
L'intervento prioritario è dividerle tra cose indisponibili al commercio (alla vendita) e cioè quelle appartenenti all'ordine del sacro, del religioso e anche del comune (nel senso di uso pubblico) dunque santuari, culti devozionali, sepolture e (allora) i fori e il Campo Marzio (oggi) i cosiddetti «beni comuni» chiamate res nullius in bonis (beni di cui nessuno ha la proprietà) e cose di nessuno (res nullius) cioè appartenenti a tutti in quanto titolari di cittadinanza (anche qui con qualche esclusione come é il caso nelle città delle strade piazze ecc di cui è consentito l'uso ma
non la proprietà).
Fissato questa riserva di indisponibilità (e dato il nome la qualificazione alle cose protette), tutto il resto è a disposizione del commercio e dunque munito di valore. Ma quale? A arbitrio del possessore? No, ma attraverso un processo denominato res (come l'oggetto in causa) in cui si forma (e definisce) il valore o pretium che tuttavia nelle fasi successive può essere aggiornato e cambiare.
Naturalmente le varianti a questa messa in ordine del patrimonio delle cose tenuta ferma la divisione tra cose indisponibili al commercio e cose disponibili sono infinite che qui non possiamo inseguire. Quel che possiamo ricavare, al termine (anzi al cospetto) del grande impianto statutario eretto da Yan Thomas al Diritto Romano, sono due «verità».
La prima: il ruolo fondativo del linguaggio giuridico le cui parole, similmente a quel che accade per la creazione di un'opera d'arte, si identificano e coincidono con le cose. Se tra il dire e il fare (come si suole dire) c'è di mezzo il mare la parola del diritto scrive Michele Spano il curatore del testo lo prosciuga giacché «qualificando eventi e cose, istituisce gli uni e le altre». Le parole diventano cose e le cose parole; la seconda (messa in risalto da Giorgio Agamben che firma la prefazione al volume): la rottura dell'unità di diritto e vita, sventando le storture che questa unità comporta (e di cui anche oggi portiamo i segni). Per esempio in bioetica (proprio in Italia) dove si pretende che sia fissato per legge il momento esatto in cui nasce la vita se
al momento della formazione dell'ovulo o ancor prima quando lo spermatozoo incontra l'ovulo ."Non è allora difficile per Yan ricordare è detto nella prefazione che, dal medioevci agli stati totalitari moderni, la storia mostra come sia estremamente pericoloso affidare al legislatore la facoltà di definire la natura umana e, conseguentemente, di stabilire per legge che cosa è umano e che cosa non lo è».
E sempre per Yan Thomas non è difficile affermare che «sarebbe ora di comprendere il diritto piuttosto che come un freno messo a ciò che minaccia l'ordine umano, proprio al contrario come ciò che protegge il diritto stesso e lo definisce nel corso delle sue progressioni successive limes [linea di confine, ndr] sempre più avanzato dell'impero del diritto sulla gestione degli affari umani».