Yan Thomas è stato un brillante e innovativo storico del diritto romano,
docente all'Ehess di Parigi, prematuramente scomparso nel 2007. La
pubblicazione di Il valore delle cose (Quodlibet,
pp. 98, euro 12), a cura di Michele Spanò, con prefazione di Giorgio
Agamben, si presenta come una preziosa occasione per prendere contatto
con l'opera di questo anomalo romanista.
L'itinerario di ricerca di Yan Thomas, infatti, per la ricchezza di
spunti che dispensa si presta a suscitare un interesse che vada oltre la
ristretta cerchia dei cultori di cose storico-giuridiche. Tutto ciò non
certo per gusto dell'eclettismo o per quell'immancabile sollecitazione
all'interdisciplinarità che, come parte integrante del nuovo galateo
globalaccademico, spinge a infilare un po' ovunque qualche sparso
riferimento agli immancabili Weber, Foucault o Lacan, assurti al rango
di autori passpartout in gradodi fornire patenti di generalità anche
alla più settoriale delle ricerche. All'opposto, l'impressione più
immediata che suscita la lettura di Il valore delle cose è quella
di una sorta di raffinata austerità, se il termine non fosse, in questi
anni, compromesso dalla sua declinazione penitenzial-economica. Diciamo
allora parsimonia, in senso epistemologico, con l'eleganza teorica che
ne deriva.
Un problema di equivalenze nonostante i temi toccati suscitino un ampio
spettro di associazioni e rimandi, in relazione a questioni quali il
sacro, il valore, la proprietà e la scambiabilità dei beni, lo statuto
del pubblico e del comune, Thomas si attiene strettamente al repertorio
delle fonti del diritto romano, dalle XII tavole al Codex theodosiano e
al Corpus iuris civilis giustinianeo,
e alla storiografia giuridica più immediatamente pertinente ai temi trattati.
Al centro del saggio di Thomas si colloca un interrogativo circa la
costituzione giuridica delle cose, ossia il loro carattere di
appropriabilità, possesso e trasferibilità, nel diritto romano. Contro
ogni oggettivismo, si sottolinea in primo luogo come nelle fonti il
termine res sia chiamato a identificare non solo le cose ma anche le
cause, le procedure, le controversie in cui
sono prese. Numerose formule provenienti da giureconsulti, materiale
epigrafico e letteratura didattica (Institutiones) sono chiamate a
evidenziare come la cosa diventi tale in quanto passibile di
controversia legale, dispiegando un vertiginoso gioco di sinonimie in
cui res, causa, lis sono giustapposti come equivalenti.
Il tradizionale locus filosofico secondo cui ogni cosa rimanda a una
causa e/ o a un processo salva così la propria letteralità attraverso
una rideclinazione dei termini causa e processo dal contesto
fisico o metafisico a quello giuridico. E così si fa strada un'altra
sinonimia, quella fra la cosa e il suo pretium, la pecunia: «la
riduzione della cosa al suo valore
trova la sua collocazione tipica nell'antico processo civile, in cui la
res era chiamata così perché costituiva la posta in gioco di una messa
in causa, di un affare (detto anch'esso res), che comportava una stima
pecuniaria». Ma a definire lo statuto giuridico delle res non è solo un
gioco di equivalenze, lessicali e quantitative, ma anche una vera e
propria topologia. Come ripete più volte Thomas, la vocazione
patrimoniale delle res viene espressa dal diritto romano solo in termini
negativi, a partire dall'indisponibilità che caratterizza una parte di
esse.
A essere definito, infatti, è il regime delle res sottratte alla
circolazione in quanto collocate nelle zone del sacro (templi e luoghi
di culto), del religioso (luoghi di sepoltura legati ai mani), del santo
(mura urbane e castrali) o del pubblico (strade, piazze, portici,
litorali, corsi d'acqua ecc.).
Al di là di ogni distinzione, come ci può attendere da un popolo che
aveva risolto la mitologia in storia della propria fondazione, le res
sacre, religiose, sante e pubbliche appaiono caratterizzate dallo stesso
statuto di inappropiabilità. Si tratta delle res in nullius in boni,
ossia, secondo una formula un po' tortuosa, «cose appartenenti a un
patrimonio che non appartiene a nessuno», da non confondersi, però, con
le res nullius, ossia le cose vacanti, di cui il «primo arrivato» può liberamente appropriarsi.
A determinare lo statuto delle res in nullius boni non sono
qualità loro intrinseche, quanto, il loro inserimento in una data
categoria, legata a circostanze che possono essere contingenti. A
definirsi è infatti una vera e propria topologia, del sacro, del
religioso, del santo, del pubblico in cui l'istituzione in quanto tale
di determinati luoghi rende privatamente inapproprabili le cose che su
di loro insistono o transitano, Solo le aree e le strutture di
fondazione erano sottratei a ogni commercio, mentre altri beni, per
esempio le offerte o gli arredi, potevano assumere temporaneamente il
carattere di indisponibilità delle per essere poi reimmessi in
circolazione.
Fra i due estremi opposti delle res in nullius boni e delle res nullius
si collocavano poi le res appropriabili, quelle passibili di commercio,
che godevano di tale statuto fino a che non fossero catturate in una
sfera di inappropriabilità. La codificazione del sacro Come si diceva,
la lettura di Il valore delle cose suscita innumerevoli stimoli e
associazioni, che elegantemente Thomas oltre a non esplicitare si guarda
anche dal suggerire. L'unico rimando, da questo punto di vista, è
riferito al Saggio sul dono di Marcell Mauss, alla cui insegna è posto l'intero volume. Sulla stessa linea,
viene immediatamente spontaneo invocare il nome di Durkheim. Da questo
punto di vista, l'indagine di Thomas ci mostra una codificazione in
senso spaziale e giuridico di quel sacro, insieme trascendente e
immanente, a cui Le forme elementari elementari della vita religiosa affidavano
la costituzione della dimensione sociale ricordandoci come l'esperienza
dell' urbs, tramite la mediazione del maestro Fustel de Coulanges,
abbia costituito la suggestione di partenza del viaggio all'interno di
una stanza che avrebbe condotto il padre della sociologia francese a
confrontarsi con i riti esotici dei «selvaggi» australiani per svelare i
segreti della modernità.
Il libro di Thomas ci parla delle cose, del loro valore, di come le
parole e le classificazioni giuridiche agiscono su di loro,
qualificandole proceduralmente. E in tal modo ci conduce, al di là della
sua dimensione antiquaria a una grande questione, forse una delle più
urgenti della nostra epoca. Essa riguarda lo statuto della proprietà
nell'età dell'accesso, per usare una fortunata formula di Jeremy
Rificin, o in un presente in cui le caratteristiche che scolasticamente
erano attribuite ai diritti reali immediatezza, assolutezza e inerenza e
conferivano loro un'apparente autoevidenza naturalistica sfumano sempre
più in quanto le res sono prese in costruzioni finanziarie sempre più
complesse, fatte di cartolarizzazioní, swap, future, blind trust,
operazioni collaterali ecc. E inutile aggiungere come ciò non
significhi affatto un declino dell'appropriazione privata in termini
generali e, anzi, si ponga alla base di pratiche estrattive e di
sfruttamento sempre più intense e rapaci che, tuttavia, sempre meno
appaiono inquadrabili all'interno degli schemi dell'individualismo
proprietario tradizionalmente inteso.