Il cucchiaio blu, riferimento a Expo, è quasi nascosto in un angolo
della galleria al primo piano ma rimane pur sempre un simbolo della
mostra che ha aperto in questi giorni al MAXXI. Del resto è proprio
tramite il cucchiaio che, nella simbologia quotidiana, la mamma ci
svezza, rendendoci liberi di andare dal nido al mondo.
«Food. Dal cucchiaio al mondo» (a cura di Pippo Ciorra) è un'altra
mostra che ha come oggetto il cibo, contraltare romano alla grande e
completa esposizione di Celant; qui si coinvolge però la dimensione
sociale del food, siano i flussi di produzione delle zone meno
sviluppate del mondo, gli usi domestici dei regimi totalitari, la nuova
tendenza del cibo da strada, o l'impatto ambientale della costruzione
dei mega ipermercati e cantine enologiche avveniristiche. Nelle sei
sezioni della mostra si parla di tutto. Un melting pot di suggestioni,
opera di artisti, architetti, designer, fotografi, sociologi, statisti
accompagna il pubblico in un viaggio che parla soprattutto del consumo
del cibo e delle forme che questo consumare assume di volta in volta.
Domenichino e la sua Cacciata di Adamo ed Eva (1673) il pezzo più antico
mai entrato al MAXXI ci annuncia che per parlare di cibo si parte
proprio dalla misura UNO, il corpo, dai pasti disidratati degli
astronauti nello spazio agli ultimi consumati dai condannati a morte di
un carcere americano, ognuno con le sue preferenze: chi il gelato alla
menta, chi wurstel e patate, chi ha preferito conservare il dolce per
"dopo".
Unità e modulo diventano simbolo di tradizioni millenarie nella camera
del tè giapponese ricostruita per l'occasione. Traslucida e
completamente apribile dà l'impressione che la stanza sia l'esatta
conseguenza spaziale, quasi l'estensione, dei gesti ripetitivi che
compongono il rito del tè. Gesti che rimandano anche alle performance
collettive nella New York degli anni Settanta dove artisti e pubblico si
scambiavano esperienze culinarie, con riferimenti dal sacro al sociale e
al conviviale. Non dimentichiamoci che, prima di essere
spettacolarizzato, il cibo, anche quello "d'artista", è stato una
necessità. Pensiamo a Food, il ristorante aperto nel 1971 all'angolo tra
Prince e Wooster Street da Gordon Matta Clark e Carol Goodden, nato
perché agli artisti della zona serviva unposto dove mangiare nelle pause
di lavoro.
Il cibo è, proprio come la materia artistica, qualcosa che nelle mani
giuste può magicamente trasformarsi, questo ci spiega in unvideo lo chef
di French Laundry, un famoso ristorante stellato a Yountville che
quest'anno subirà un ampliamento funzionale a opera dello studio
Snøhetta.
Le due cucine, la sovietica Kommunalka dove convivevano anche sei
famiglie e andava in scena la commedia umana, e quella razionale e
componibile della tedesca Margarete Schutte-Lihotzky, introducono il
tema della convivialità e il senso di riunirsi attorno a un tavolo, come
testimoniano le bellissime foto di una famiglia birmana opera di Chris
Terry per il World Food Program.
La strada luogo di trasmissione e consumo del cibo è interpretata da
vari esempi. Ognuno accenna un tema che di per sé varrebbe una tesi di
laurea. Si parla della rete dei Dabbawala (fattorini che consegnano
gavette cucinate in casa) che ogni giorno consegnano pasti a domicilio a
duecentomila lavoratori connettendo la città statica tradizionale con
la città frenetica del capitalismo. C'è l'esperimento di Atelier Bow-Wow
che ha ricostruito un tipico chiosco mobile nipponico ma lungo dieci
metri, permettendo a un elevato numero di persone di condividere i pasti
in quello che i progettisti chiamano un «micro spazio pubblico». Ci
sono gli scaffali virtuali di Tesco nella metropolitana di Seul, gli
articoli si scansionano e pagano tramite smartphone e i prodotti vengono
consegnati direttamente a casa al nostro arrivo. La città è un baratro
di riferimenti che uniscono un lasso temporale lungo un secolo con
nozioni di botanica e architettura mostrando quanto non abbiamo mai
abbandonato l'utopia della convivenza fra agricoltura e urbanesimo.
Troviamo le fotografie dei supermercati Esselunga progettati da Ignazio
Gardella; il progetto della Ferme radieuse di Le Corbusier (1938)
e il suo tentativo di riqualificare lo spazio agricolo; gli esempi di
riqualificazione virtuosa dei mercati di Santa Caterina a Barcellona
(2o05), Markthal di Rotterdam (2014) e quello di Ghent (2012). Ci sono
gli alveari cittadini progettati a Oslo da Snøhetta, vari ristoranti
famosi realizzati da studi di architettura illuminati.
Se il cibo va verso la spettacolarizzazione, staccandosi dai processi
produttivi naturali, diventa quasi una propaggine delle volumetrie
architettoniche cittadine. Compriamo sotto una volta di legno gotica,
mangiamo in cima alla Royal Opera House o sulla ruota panoramica. Non
più cosa ma come e in che modo. È su queste ultime considerazioni che,
tra paesaggio e mondo, ci vengono mostrate le foto delle cantine
ultramoderne che ridisegnano i pendii collinari e i progetti utopici di
costruzione di nuovi granai che conservino tutte le specie di sementi
esistenti. Impossibile guardare la mostra senza il catalogo che ne è
l'origine e approfondisce la ricerca sviluppata per la mostra, portando
contributi che vanno dalla storia all'attualità, dai granai di Venezia a
Eataly, con testi di sociologi, antropologi, ricercatori, chef,
architetti, giornalisti.
Quando si trattano temi così complessi è raro che la mostra possa
mettere in scena tutte le sfaccettature, i riferimenti storici,
antropologici ed estetici. È forse per questo che Hanru in conferenza
stampa l'ha definita una mostra «da digerire» e in questo senso vanno
tutte le numerose attività e performance che accompagneranno la mostra
fino a novembre, con pasti da consumare fra il pubblico, riti del tè e
interventi di esperti.