Recensioni / La banda dei sospiri

Secondo George Steiner la sola critica letteraria possibile è la lettura, e il modo corretto per accostarsi ai testi è la cortesia. Il lettore deve quindi essere “cortese”, cioè deve pazientemente interrogare ogni parola, accogliendola in uno spazio di senso senza velleità di dominio e senza attribuzioni superficiali di etichette. La banda dei sospiri di Gianni Celati – ripubblicato ora da Quodlibet seguendo l’edizione Einaudi del 1976 – impone questa accortezza. Siamo infatti di fronte a un’opera che sia tematicamente che stilisticamente esaspera la “tradizione” letteraria, compiendo un attentato al genere “romanzo”.

Avendo ben in mente la lezione di Bachtin, Celati mette in scena una corporalità grottesca in cui il corpo, privo di un centro di gravità, tende a disperdersi nello spazio, opponendosi in tal modo all’assetto moderno della cultura occidentale. Per secoli, infatti, l’Io borghese ha relegato il corpo comico a uno spazio di malattia psichica, riducendone la gesticolazione a semplice nevrosi. L’intento di Celati è proprio quello di «far parlare il corpo matto»: tutte le personae sono prima di tutto “corpi” alle prese con i propri desideri, desideri allucinati, goffi, scandalosi e perciò profondamente eversivi. Prigionieri di luoghi concentrazionari come la famiglia o la scuola, i personaggi esperiscono la realtà del mondo non intellettualmente, ma attraverso sensazioni fisiche: la scena è popolata di giarrettiere rubate e odorate, di palpeggiamenti, di sottane che si alzano e «cosce che ballano», di ragazzi sempre con il «manico» in mano sognando qualche «monta» con donne avvenenti. Anche la scelta di Celati di far narrare le vicende a un adolescente, soprannominato Garibaldi perché corre sempre, amplifica le possibilità comiche. Infatti cosa c’è di più buffo che assistere alla scoperta della sessualità (e quindi scoperta tanto del proprio corpo quanto del corpo dell’Altro) da parte di un ragazzo? Proprio questa sua inesperienza si traduce in una frenesia erotica che genera tutta una serie di gags imperdibili, in cui la sessualità, svestita di sovrastrutture che ne omettono la sconvolgente asprezza, torna a volare a quote più reali.

Tuttavia la critica al “tradizionale” si consuma, anche e soprattutto, a livello linguistico. L’italiano del narratore è approssimativo e arbitrario sia nell’uso dei tempi verbali che nella punteggiatura. Il testo è assediato da una vitalità linguistica inespugnabile che asseconda l’enfasi comica; il “lessico famigliare” strizza l’occhio al parlato, restituendo stilisticamente tutto il trauma erotico di un adolescente. La lingua è qui pulsione, intensità libera, zona franca, energia sorgente. A un’idea di romanzo che reprime il basso e il carnevalesco e che pretende di essere luogo di conoscenza e di educazione dell’individuo, questo bildungsroman anomalo, con i suoi personaggi folli e sempre spinti dalle parole su terreni grotteschi, ri-include ciò che in molta tradizione è andato perso: il comico, la fabulazione, il corpo, il parlato.

Insomma, affezionarsi all’education sentimentale di questo giovane «vagabondo delle stelle» è facile. La sua fuga dai sospiri della famiglia, dalla bellissima Veronica Lake che non lo considera più, dalla scuola, dal preside, dai vicini, è simile tanto alla fuga incosciente del Pinocchio di Collodi, quanto a quella raminga e solitaria del narratore di Viaggio (Altri libertini, 1980) di Tondelli. La sua corsa si costituisce come evasione dalla realtà violenta ed egoista; è uno “spolmonarsi” anarchico che lo sospinge, solo e scalzo, sopra i cocci di vetro dell’adolescenza. Se accostassimo l’orecchio a La banda dei sospiri e prestassimo attenzione alle suggestioni sonore che esso produce, inciamperemmo nelle parole che Calvino fa pronunciare al nipote del “visconte dimezzato”, parole che descrivono bene l’amarezza sbilenca del nostro giovane «predone nomade»: «Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane» (Il visconte dimezzato, 1952).