Il «gusto» e l'«avventura» secondo Giorgio Agamben.
Il gusto è una facoltà difficile da esibire. Forse è per questo che,
nell’ossessione per il cibo che sembra dominare l’odierna vita
sociale, è sostituito da tag e chef che ne certificano lo status e
dalle immagini dei piatti che vengono «raccontati» prima di
mangiare. Ma anche in epoche nelle quali il gusto forse valeva di più
non è stato facile sapere che cosa precisamente fosse.
Dalla sua storia recente, quella che lo lega alla nascita dell’estetica
nel XVIII secolo, sappiamo che il gusto è qualcosa che si forma
attraverso l’esperienza, la disciplina (comprensiva anche
dell’indisciplina) e lo studio innestati a qualità innate. È
qualcosa che mescola la contingenza – anche la più bassa e
meccanica – con l’astrazione. Il gusto è un ibrido che nelle figure
che lo incarnano all’estremo, come il dandy, ha la pretesa di essere
una pratica che conta anche come teoria. È qualcosa di eccezionale,
un’«eccellenza» che vale però come norma suprema, come sapore che si fa
direttamente sapere. Il legame tra sapere e sapore è già nella
preistoria del gusto.
A quella preistoria torna Giorgio Agamben in Gusto (Quodlibet,
pp. 58, euro 10), testo che ripropone l’omonima voce del 1979 per
l’Enciclopedia Einaudi. Dalla ricognizione che fa Agamben si viene
presto a conoscenza del fatto che capire cosa sia il gusto vuol dire
venire a domande più generali che hanno a che fare con l’eros, il
desiderio, l’epistemologia. Nel corso della storia, le risposte a
queste domande sono state sempre paradossali. Agamben le riassume
nelle problematiche formule del gusto come di un sapere senza
piacere e di un piacere senza sapere; di una conoscenza eccedente e
di un’eccedenza inconoscibile – quest’ultima definita con la
proverbiale espressione del non-so-che. Il non-so-che del gusto per
Agamben mostra una serie di cesure come quella tra soggetto e oggetto,
divinazione e scienza, significato e significante, le quali
cesure la filosofia dovrebbe ricomporre.
La sorpresa è che, secondo Agamben, il progetto di ricomposizione di esse è quello che già Platone inaugura impugnando la faglia che separa l'amore dal sapere e cioè la filo-sofia. «Un amore di sapere e un sapere d'amore in cui verità e bellezza comunicano, la scienza gode e il piacere sa». Da questo, aggiunge Agamben, risulta un'importante conseguenza riguardo il gusto e non solo, che cioè «Eros è necessariamente iscritto nel destino della filosofia occidentale». In altre parole, il gusto, per Agamben, ci fa capire come la filosofia, sin dal suo programma platonico, si costituisce come quéte che solo colmando la distanza fra sofia e eros può giungere all'unità di sé. […]