Claudia Castellucci, fondatrice con C. Guidi e R. Castellucci della
Socìetas Raffaello Sanzio, ha da poco pubblicato un corposo libro per
Quodlibet, Setta. Scuola di tecnica drammatica, un manuale empirico in
cinquantanove lezioni rivolto idealmente a tutti quelli che passano ore
«cariche di ansia costruttiva, in cui occorre cambiare immediatamente il
mondo», un percorso fisico, immaginativo, filosofico, artistico nelle
possibilità ancora non esperite del teatro. A Venezia presenta
Esercitazioni ritmiche, un lavoro molto più concentrato, che così ci
spiega.
Ci può introdurre l’azione per Biennale College Danza?
Ho proposto questo seminario a Venezia come quarto momento di uno studio
iniziato a Cesena e proseguito ad Atene e a Teheran. Si tratta di un
percorso che vuole riprendere in maniera iniziale la danza, ossia quando
sorge spontanea, come qualcosa che deve avvenire e che riguarda il
tempo in cui uno vive, trasformandolo. C’è un giorno in cui ci si
accorge che siamo dentro una condizione superiore, che assomiglia al
destino, contro il quale nulla è possibile opporre. Con la danza,
invece, si oppone un altro tempo, un’altra condizione. Quando parlo di
inizio non intendo riferirmi ad alcun atteggiamento archeologico, ma a
qualcosa che è all’origine del movimento, associato indissolubilmente
alla musica, considerata come cadenza ritmica. Il tempo è stato fin
dall’antichità percepito come una scansione ordinata di frammenti
temporali e la danza in termini di poesia concreta. Poesia, infatti,
deriva da un verbo che significa fare, e la danza è veramente una
poesia.
In quale senso?
Nella metrica greca le sillabe hanno un peso maggiore o minore perché si
pronunciano in modo più lungo o più breve. Questa diversità comincia a
essere materia poetica: per cui s’inventano i piedi che fungono da
misura nelle poesie. A me interessa riprendere il discorso della danza
come metamorfosi del tempo e della fisicità. Questo ha anche un rilievo
di tipo morale: è una decisione morale danzare. Ho strutturato il
seminario qui a Venezia cercando di abbracciare anche le parti in ombra
del tempo, in particolare il tempo musicale formato da battute e da
intervalli che distinguono le note tra di loro e servono per conferire
ritmo. La prima parte di questo seminario è forzatamente orientata al
fatto che di lì a pochi giorni dovrà essere veduta da una platea. Il
fronteggiare è, inoltre, un tema di tale ballo perché la disposizione
del corpo è un andare incontro anche all’imprevedibile, all’errore. Un
atteggiamento attivo che risponde alla musica. Poi, c’è una parte più
passiva che deve essere sempre pronta all’evenienza che il caso riserva e
lì è importante essere ricettivi, per far sì che la risposta sorga. Ho
creato azioni semplici: il difficile è farle proprie. Si tratta di un
dato importante perché se avviene una distrazione il ballo decade e
diventa immediatamente banale. L’altra parte del movimento è sondare la
faccia in ombra della musica: la pausa.
Ha detto che prima sono arrivati i passi e poi la musica. Chi l’ha
scritta e com’è avvenuta l’assimilazione del tempo della danza alla
musica?
Dapprima, ho scelto in maniera diligente alcuni piedi della metrica
greca e poi ho chiesto al musicista Stefano Bartolini di metterli in
musica. Davanti ai suoi occhi li ho provati per vedere se funzionavano e
lui ha proposto anche dei fraseggi, perché vi sono dei momenti in cui
alcuni passi si intrecciano. Stessa cosa anche con le misure dispari, ad
esempio il 7/8, che ci ha dato l’occasione di accelerare il ritmo, di
poter dilatare o restringere il tempo con dei sincopati.
Il suo lavoro è stato inserito nelle sezione Agorà: come pensa che
avverrà l’incontro della coreografia con il passante che è giunto a
Venezia solo per visitare la città?
Noi stessi siamo innanzitutto passanti, tant’è vero che ci presentiamo
nella piazza, Campo Sant’Agnese, provenendo da fuori, in un cammino.
Questa danza è un cammino che procede e che misura; vi sono alcuni passi
che computano lo spazio in senso cardinale. Dal punto di vista estetico
è stato molto importante considerare l’aspetto cromatico. È
fondamentale lo stagliarsi attraverso una uniforme nera o marrone,
bicroma, perché permette alla singola figura di distinguersi e di
esporre la concezione di fondo: entrare dentro a una struttura comune
che io faccio mia, in cui è importantissimo il valore personale. Il
nostro non è un ballo sincronico in senso stretto, non è una parata, è
una struttura che decido di fare mia e che, accanto a me, vede altri
farsela ritmicamente propria. La struttura è l’abito comune con la quale
si contraddistingue la qualità del gesto personale, soprattutto il
volto. In questo modo ci si riposa vedendo un’unità cromatica e ci si
diverte a guardare le singole persone.
Lei parla spesso dell’importanza della consapevolezza soggettiva di
stare fisicamente in un luogo. Qual è la sua posizione spaziale a
Venezia?
È di una persona che sta accanto ad altre e studia insieme a loro un
ritmo. Lo spazio è dato dal proprio essere dentro il ballo, è una forma
di occupazione spaziale, oltre che temporale, soprattutto nel caso della
manifestazione pubblica. Lo spazio diventa il nostro luogo: oltre che
architettonico è costituito soprattutto dal fatto che noi ci troviamo
insieme a studiare.