Un lavoro scritto da Paolo Maccagno, antropologo-maratoneta che lavora all'Università di Aberdeen ("Lungo lento. Maratona e pratica del limite" - Qodlibet Studio), parla all'anima di chi corre e spiega ciò che i runner conoscono in ogni loro fibra e muscolo: "l'esperienza trasformativa, il movimento ritmico, ostinato e costante che orienta"
Succede quando un antropologo-maratoneta decide di analizzare in
profondità, senza pudori, il significato della corsa. Paolo Maccagno,
ricercatore al Department of Anthropology dell'University of Aberdeen,
lo ha fatto e né è scaturito un lavoro sorprendente ("Lungo lento.
Maratona e pratica del limite" - Qodlibet Studio). Un libro che parla
all'anima di chi corre e gli spiega ciò che ogni runner conosce senza
saperlo, tutto quello che è scritto nelle fibre muscolari, nei tendini,
nel cuore, nel cervello. Nell'anima, appunto. E che, in fondo, è nel Dna
di qualsiasi essere umano visto che - ci ricorda Maccagno - l'uomo si è
evoluto per correre e non per camminare, con una moltitudine di tratti
corporei, sviluppatesi nel corso di milioni di anni, essenziali per la
corsa e non per la marcia (il tendine d'Achille, quelli dell'arco
plantare o del tratto ileo-tibiale. Ma anche la lunghezza delle gambe
rispetto agli arti superiori, l'alta percentuale di fibre rosse dalla
grande efficienza aerobica, le dimensioni del piede...). Una lunghissima
corsa iniziata 1,6 milioni di anni fa nella Rift Valley (guarda caso,
ancora oggi il regno della maratona da dove provengono gli inarrivabili
campioni kenyani): lì nel 1984 è stato ritrovato lo scheletro del
"Ragazzo del Turkana", un Homo ergaster considerato il capostipite di
tutti gli umani corridori.
Milioni di anni fa i nostri antenati correvano per inseguire e sfinire
le prede. Oggi, scrive Maccagno, correre la maratona "è sentire l'aperto
di fronte a sé. Una distanza troppo grande per essere vista, e che va
immaginata. Una terra di nessuno in cui la città non esiste più, solo
volumi, materia informe, senza nome". Questa terra di nessuno inizia
intorno al 35° chilometro, il famigerato "muro" che deve affrontare ogni
maratoneta, olimpionico o dilettante che sia. Maccagno ci spiega come
non si tratti solo di un limite fisico-biologico, perché in gioco ci
sono elementi culturali che chiedono al runner di cambiare "postura"
davanti alla vita. Una linea che non separa, ma mette in relazione due
mondi: "Il noto con l'ignoto. Dopo il tramonto, prima dell'alba".
"Il muro del maratoneta è un'esperienza trasformativa. Soltanto un
cambiamento di postura corpo-mente può permettere di andare oltre.
Soltanto una "pratica del limite"". Ad orientare il maratoneta non è il
traguardo, non è la meta: è il movimento ritmico, ostinato e costante,
"quello del passo lungo una linea. Il segreto per fare una maratona è
diventare un corpo che corre all'interno di un flusso perpetuo e
ridondante: andare senza andare".
E il cambiamento di postura davanti alla vita fa del maratoneta una
sorta di pittore, un Cézanne che - scrive Maccagno - "intrattiene con la
realtà una relazione che non è semplicemente ottica, non la vede di
fronte a sé come finita e completa per poi procedere a una sua
rappresentazione. Piuttosto la relazione che ha è quella di una
"continua nascita", come se aprisse continuamente gli occhi al mondo per
la prima volta". Oppure il maratoneta come un Robinson Crusoe, che
"lascia la terra ferma del noto e comincia a correre, immergendosi in un
movimento perpetuo, ridondante, nostalgico".
La postura del maratoneta lo mette sullo stesso piano di un fratres
minores francescano, perché la sua vita, scrive Maccagno, "è per molti
aspetti quella di un monaco. La possibilità di rendere viva dall'interno
la regola, incarnandola con la propria vita di maratoneta, è
paradossalmente il modo per emanciparsi dal dovere. Non c'è nulla che
obbliga a seguire allenamenti faticosi e continui. La domanda che può
sorgere è: ma chi ve lo fa fare?". La risposta si è andata definendo,
giorno dopo giorno, con la pratica: "Essere maratoneta è una sorta di
trasparenza che si applica alla vita di tutti i giorni. E' una fuga dal
mondo nel mondo". Ed è anche l'appartenenza alla "fratellanza
orizzontale" che lega milioni di maratoneti nel mondo, un running tribe
orizzontale come orizzontale è il paesaggio della maratona.
Ecco perché "il maratoneta viene guardato con rispetto e ammirazione, ma
nello stesso tempo viene tenuto a distanza perché è il pericoloso
portatore sano di un nuovo mondo che ancora non conosce e per cui sente
un'attrazione irresistibile. Come un bambino, gioca con il fuoco senza
bruciarsi". Insomma, fare una maratona "è avere il coraggio di credere
in quella meravigliosa fragilità che è correre senza sapere perché. Un
coraggio che ha una carica eversiva, non violenta e saggia perché
implica la possibilità di stare sul limite. Un luogo che accoglie
l'inutile come possibile. Rimanere in quel luogo significa coordinarsi
con un movimento lungo e lento che suscita un forte sentimento di vita e
di presenza".