Alla domanda in stile ontologico o metafisico «che cos'è una cosa?» se ne può opporre un'altra ben diversa: «come si istituisce una cosa?», secondo quali regole e per quali finalità? Un tale tipo di questione è ben presente, e da tempo, all'analisi antropologica, ma non succede spesso che essa venga fatta propria dal diritto. La ragione è semplice. Le cose, nel diritto (o meglio nella sua ordinaria autorappresentazione), costituiscono l'ambito nel quale un soggetto (poco importa se individuale, collettivo, pubblico) agendo in guisa di proprietario ne trasforma alcune in beni, acquisendole al suo dominio. In realtà, nella relazione proprietaria la cosa ha già la veste oggettiva di bene giuridico, e come abbia assunto tale veste non ha vera rilevanza; ciò che è rilevante è la centralità del soggetto, e la tecnologia, argomentativa e rituale, che gli consente di usare, difendere, e, se vuole, distruggere la cosa che gli appartiene: l'identità della cosa sta in questa relazione, e solo in essa. A tale relazione è stata assegnata per secoli una funzione fondativa del sapere giuridico, a sua volta incardinata in una tradizione agganciata a un'origine collocata nel diritto romano. Questa genealogia ha esercitato un'autorità talmente forte da rendere sempre ardue le prove di decostruzione; e ha legittimato un sapere capace di classificare ogni forma di appartenenza e di oggettivazione alla luce del dogma proprietario inaugurato appunto racconta la tradizione – dai romani. Per quanto numerosi siano stati i tentativi di addomesticamento dell'ideologia proprietaria, è evidente che essi abbiano sistematicamente cozzato proprio con l'intangibilità dell'origine.
Ecco perché sono risultate così innovative le ricerche che, tra gli anni settanta del secolo scorso e la morte prematura nel 2008, Yan Thomas ha condotto sul diritto romano, e in particolare, appunto, sullo statuto delle cose: perché hanno cambiato radicalmente, proprio dall'interno di un sapere tra i più tecnici, la prospettiva sull'origine. Se l'intangibilità del paradigma mostra oggi tutta la sua fragilità, è certo alla luce di un dibattito, economico e antropologico, che dura da almeno centocinquant'anni; al quale tuttavia è spesso mancato il fondamentale riscontro all'interno del diritto: la riduzione di quest'ultimo a ideologia o proiezione meccanica dei rapporti di produzione non è servita a spiegare uno dei dispositivi decisivi dell'appropriazione e dello scambio; anzi, ha contribuito forse ad alimentare l'alone di arcano che circonda la fondazione dei diritti e delle relazioni giuridiche.
Gli studi di Thomas hanno aiutato a colmare questo scarto: adottando sempre la forma del saggio asistematico, ma implacabilmente coerente, imperniato non sul grande tema (il «diritto di proprietà», ad esempio) ma su un nodo teorico. Il saggio che adesso viene tradotto in italiano, grazie alle cure impeccabili di Michele Spanò: Il valore delle cose (Quodlibet, pp. 108, € 12,00), è uno di questi esercizi esemplari e apparve per la prima volta nel 2002 in un numero delle «Annales». Grazie a esso riusciamo a capire molto meglio la ensità storica dello schema antropocentrico moderno che fa delle cose l'ambito nel quale si proietta la volontà di dominio del soggetto proprietario; e soprattutto diventa più facile storicizzare la fondazione antica, cioè romana, di questo schema.
La ricerca di Thomas riguardò le condizioni culturali e sociali attraverso cui una cosa, una res, emerge come oggetto giuridico. A Roma, prima che nell'astratta dimensione del mercato, queste condizioni si producono nello spazio ben determinato del processo civile. È qui che le res appaiono come tali, portatrici o meno di valore, appropriabili oppure no. Le cose appropriabili si dispongono in uno spazio ideale (sociale e economico) delimitato da due estremi: da un lato c'è il mondo della 'natura', delle res nullius, in attesa» del loro primo possessore; dall'altra le cose sacre o pubbliche, assegnate a un'entità astratta e imperitura (un dio, un defunto, una città) e sottratte (in certi casi per sempre) alla valorizzazione, agli scambi e all'uso privato: templi, tombe, santuari, vie, acquedotti, teatri… Due tipi dunque completamente diversi di inappropriabilità, pensabili però e definibili entrambi in rapporto all'appropriazione, alle pratiche disciplinate della proprietà, dello scambio e della trasmissione. Esiste cioè ci dice Thomas – un doppio baricentro nell'universo delle cose. Da un lato laddove si definisce il valore delle cose fungibili, e dall'altro, per differenza, nello statuto delle cose che 'non hanno valore': o perché sono, letteralmente, inestimabili (beni pubblici o sacri), o perché non sono state «ancora» stimate (beni naturali). In tutti i casi sono operazioni contingenti e istituzionali, ora di valorizzazione, ora di sottrazione ai giochi dello scambio, a costruire le cose, e a distribuirle nelle loro diverse categorie. È un costrutto, il mercato, nel quale liberamente circola la quasi totalità delle cose scambiabili, ereditabili, donabili; ma sono «istituzioni» artificiose anche la «natura» che accoglie i cosiddetti beni comuni, e la città entro la quale vengono demarcati tanto i beni «pubblici» quanto quelli sacri.
Ecco dunque che in diritto romano, spiega Thomas, lo statuto delle cose scambiabili, della proprietà e delle merci, piuttosto che essere affermato in positivo deriva dalla qualificazione delle cose sacre o pubbliche: cose invalutabili e senza soggetto, queste ultime; o, per meglio dire – secondo una formula paradossale o incomprensibile alla luce del paradigma proprietario –, cose che risultano «appartenenti a un patrimonio che non appartiene a nessuno» (res nullius in bonis). Thomas non afferma mai, né qui né altrove, che le seconde «precedano» le prime, che il sacro /pubblico incomba arcaicamente sulla società mercantile, o che la natura faccia da piattaforma al diritto e alla politica. Perché è sempre una relazione a creare una res; quella tra le parti che litigano nel processo e che, in questa speciale forma di transazione, rendono possibile il prodursi del valore della cosa contesa; e quella fra res commerciale o patrimoniale e il suo opposto, l'indisponibile e l'inestimabile delle cose pubbliche o sacre.
In questa complessa relazionalità cose e soggetti si desostantivizzano. La res è, quasi fin dall'inizio della riflessione giuridica a Roma, tra III e II secolo a.C., una qualificazione giuridica, un ammontare, un valore, non un fenomeno «del mondo esterno» catturato provvisoriamente dal diritto. Non è un caso che nel linguaggio giuridico romano res, pecunia, pretiurn possono essere sinonimi; così come non è un caso che la storia della parola riveli la sua nascita nel processo e che il suo significato rimanga costitutivamente ambiguo; ossia, come riassume in un efficace calembour Spanò nella postfazione, che la cosa contesa non sia discernibile dalla contesa che la rende una cosa.
A entrare nello scambio, insomma, solo in apparenza sono le cose; come aveva già insegnato Georg Sirrunel, sono piuttosto i loro valori. D'altra parte che non si sia più qui nei dintorni dell'originario paradigma proprietario viene confermato dal fatto che le cose pubbliche, le res populi, non sono di un qualche soggetto collettivo o di una qualche istituzione: sono indisponibili senza essere per questo assegnati a una «proprietà pubblica». Semplicemente «servono all'uso dei privati in base al loro diritto di cittadinanza», come recita un passo del Digesto. È vero che «pubbliche» potevano anche essere porzioni di patrimonio che la città o il fisco avevano nella loro piena disponibilità: ma ancora una volta, non dalla qualità intrinseca delle cose derivava un simili statuto, ma da una deliberazioni e da una distinzione (dalle cose propriamente sacre o pubbliche).
I beni comuni, di cui molto oggi si discute, e il loro contrario, gli oggetti della sovranità proprietaria condividono un carattere storico la loro costitutiva istituzionalitì che il lavoro di Thomas ha permesso di decifrare meglio.