Recensioni / Scritti Inediti

Il brano che pubblichiamo è tratto dal volume Quel che ho visto e udito a Roma (Quodlibet, pagg. 124, euro 12,50 con presentazione di Giorgio Agamben). Il testo di Inge Feltrinelli verrà letto questa mattina alla libreria Feltrinelli di via del Babuino a Roma, durante la visita ai luoghi romani di Max Frisch che toccherà, fra l'altro, via Margutta, via Giulia, piazza del Popolo.

 

I titoli giornalistici che per mesi hanno riportato il no­me Montesi sono spariti, e con essi anche la benché mini­ma notizia sullo «scandalo del secolo». Cosa è successo? Che tutto sia veramente «insabbia­to», confermando i timori pes­simistici dell'uomo comune? Che si siano stufati anche i co­munisti di grufolare nella «pa­lude della società romana», di­sorientati dalle rivelazioni in­cresciose acarico di uno di loro, l'avvocato Sotgiu? Ma i giornali italiani tacciono ormai anche su questo caso.
L'ampia documentazione raccolta dal capo della com­missione d'inchiesta si trova adesso presso la Procura della Repubblica. Il processo do­vrebbe iniziare alla fine di feb­braio, probabilmente contro gli indiziati Piero Piccioni e Ugo Montagna, rilasciati nel frat­tempo dalla custodia preventi­va. Ilpalcoscenico èperò almo­mento buio. Anche la platea è vuota. E i personaggi che ani­mavano un tempo la scena tra­scorrono la loro vita nell'om­bra, come tutti gli altri. Ma do­ve vivono? E come vivono?
Raffaello Sepe, divenuto fa­moso perle indagini scrupolo­se e spietate condotte ne! caso Montesi, a lavoro concluso ha avuto un esaurimento nervoso. I medici gli hanno prescritto tranquillità; si è trasferito con la famiglia in campagna.
Ciononostante alla fine di febbraio rientrerà per salva­guardare e confermare il risul­tato delle indagini, e collabora­re al processo che ‑ pare ‑non avrà luogo a Roma.
Piero Piccioni, il figlio del­l'ex ministro degli Esteri, ha ini­ziato in prigione a comporre un concerto. Adesso si è rinchiuso nel suo studio di Roma per scri­vere le musiche di alcuni docu­mentari. I tempi di consegna sono stretti. Gli resta quindi po­co tempo per pensare al caso Montesi. Si dice che sia assolu­tamente tranquillo, e si augura che vengadato corso al proces­so che appurerà una volta per tutte la sua innocenza.
Attilio Piccioni, il ministro degli Esteri uscente, si è ripreso dal duro colpo infertogli dal­l'arresto del figlio. Si dedica al­la famiglia. Per la prima volta nella vita Piccioni padre ha tempo.
Ugo Montagna, il marchese un tempo noto quale idolo dei salotti, conduce una vita mo­desta e ritirata, in compagnia soprattutto del vecchio padre. In prigione è molto dimagrito, anche se nel frattempo ha riacquistato il suo peso normale. Ma non la solita gioia di vivere. Per quanto abbia tentato di ri­buttarsi negli affari, e di ripren­dere la compravendita di im­mobili, ha incontrato difficoltà. Molti amici influenti l'hanno abbandonato, molti uomini d'affari non si fidano di lui. Si dice che negli ultimi mesi abbia perso centocinquanta milioni di lire.
Tommaso Pavone, ex capo della polizia, tra tutti i coinvolti il personaggio forse più enig­matico, si trova in una situazio­ne poco chiara. Contro di lui non vi sono imputazioni, eppu­re è stato il primo a dover paga­re con il suo impiego. Finora è stato interrogato soltanto due volte come testimone. In teoria è ancora a disposizione del mi­nistero degli Interni, pur essen­do stato sospeso dal servizio. Anche Pavone afferma di aspettare con calma la sua ria­bilitazione, sperando di rien­trare nel servizio pubblico.
Silvano Muto, il giovane giornalista asceso alla ribalta grazie alla rivelazione mozza­fiato del caso Montesi, vive con moglie e figli nei pressi di Ro­ma. Deve tenere sotto control­lo i nervi, tesi spesso fino a lace­rarsi a causa dell'avventura per lui non sempre fortunata. Il suo desiderio più grande era far ri­suscitare la sua rivistaAttualità divenuta tanto famosa; ma il periodico apparso in una nuova veste ha cessato ben presto di esistere.
Adriana Bisaccia, l'esisten­zialista, prototipo della ragazza di provincia in cerca di avven­ture, la cui posizione nel caso Montesi non è ancora affatto chiara, si è ravveduta. Ha ab­bandonato l'ambiente «impu­tridito» in cui amava aggirarsi a Roma, ed è diventata una brava impiegata di successo in una fabbrica di cosmetici. Viaggia in lungo e in largo per l'Italia, munita di opuscoli e campioni, e non nutre più il desiderio di diventare famosa grazie a una pubblicitàdiscutibile.Vuol e la­vorare in pace e vivere in pace come le altre ragazze borghesi.
Anna Maria Caglio, il «cigno nero», chiamata anche «figlia del secolo», vive in un conven­to a Firenze. Ha timore della gente, in particolare dei giorna­listi e dei passanti che la fissano ogni volta che si avventura sul­le strade. Per posta le arrivano dozzine di offerte di aziende ci­nematografiche che un tempo, quando attraverso il marchese Montagna tentava la strada verso Cinecittà (la Hollywood romana), non riuscivaaottene­re. La Caglio sembra però non avere più voglia di comparire in pubblico. Indossa un mantello con cappuccio che, quando un fotoreporter si apposta sulla strada per scattarle un'istanta­nea, abbassa velocemente sul viso.
I tempi sono cambiati anche per la famiglia Montesi. Ogni domenica si avviano in pelle­grinaggio solitario alla tomba della figlia Wilma, che ha getta­to nello scompiglio e nel caos politico un'intera nazione. La segheria dei Montesi va male. Mancano iclienti. Papàe mam­ma Montesi sono afflitti, per­ché non capiscono come mal debbano, per giunta, essere le vittime di questa vicenda fata­le. Un giornale romano ha lan­ciato una volta un appello a fa­vore della famiglia. I Montesi hanno ringraziato, ma con amarezza perché non chiedo­no elemosine, bensì lavoro.
Questo è quanto resta di un palcoscenico che pullulava di cosiddetti esistenzialisti, idoli dei salotti, cavalieri dell'indu­stria, fanatici della giustizia, ministri, giornalisti e attori. Tutti sembravano essere se­guaci di una vita «libera, priva di pregiudizi». Tutti mostrano oggi una tendenza sorpren­dente a diventare dei bravi bor­ghesi, ciascuno a suo modo. La speculazione politica tentata dagli estremisti politici italiani sulla scia del caso Montesi è co­munque fallita. Nellaborsa del­la propaganda romana le azio­ni del caso sono quotat e zero.
All'inizio degli anni Ses­santa Max Frisch e In­geborg Bachmann vi­vevano a Roma in un romanti­co palazzo scalcinato di via Margutta, in uno studio da pit­tore che comprendeva un enorme soggiorno, un angolo cottura e un minuscolo ba­gno.
Per il nostro lavoro roma­no Giangiacomo Feltrinelli e io avevamo affittato uno stu­dio identico sullo stesso pia­nerottolo, la porta accanto.
Tutte le mattine, quando uscivo piuttosto presto, la porta dei nostri vicini si apriva e Max Frisch mi si presentava in una nuvoladifumo chepro­fumavadi buon tabacco ingle­se da pipa (fumava come una ciminiera). Mi diceva: «Andia­mo.a prendere il caffè?» e così facevamo la promenade di via del Babuino ‑ il caffè preferito da Max Frisch era di fronte al­la nostra libreria.
Lui si lamentava sempre di Ingeborg: «Sono troppo sviz­zero, ma non riesco a capire perché non si alzi mai prima delle due del pomeriggio, per­ché non legga mai la sua posta e i cassetti della scrivania tra­bocchino di lettere ancora chiuse. Cosa posso fare? Viviamo nella città più bella del mondo, ma faccio fatica a ca­pire l'italiano e lei».
C'era un'altra cosa di cui non riusciva a capacitarsi. Ogni volta che parlava del suo grande maestro Bertolt Brecht non cessava di meravigliarsi di come Giorgio Strehler, per Vi­ta di Galileo, avesse potuto creare dei costumi tanto fa­raonicamente lussuosi per i cardinali.
Le cappe dei cardinali erano tempestate di pietre luccican­ti. Strehler, che mirava sempre alla perfezione totale, le aveva cambiate dieci volte prima di essere soddisfatto, ma Max Frisch soffriva per quel lusso sfrenato e diceva che Brecht si sarebbe rivoltato nella tomba.
IngeborgBachmann appa­riva la sera e insieme si andava alla Trattoria Otello alla Con­cordia di via della Croce. Loro due adoravano quel posto per la sua fontana all'aperto che veniva decorata arcimbolde­scamente con frutte e verdure fresche.
Ingeborg era triste, malin­conica, vestiva solo di grigio scuro; ho sempre avuto l'im­pressione che fosse totalmen­te sottomessa a Max Frisch. La sua ipersensibilità si avvertiva in ogni gesto. Soffriva. I due erano troppo diversi. Poco do­po si sono lasciati e Ingeborg rimase per un certo periodo nostra ospite a Milano.
Si occupava di lei il nostro geniale redattore Enrico Filip­pini, grande esperto di lettera­tura tedesca. Trascorrevano tutti i pomeriggi e le sere in un piano‑bar all'angolo di viaAn­degari: parlavano di poesia e bevevano.
Quindi Ingeborg si trasferì a Berlino, da dove mi mandò tutta l'opera Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Brecht su disco. Nel dicembre 1963 ci ha scritto: «Sono stati molto malataperlungo tempo e solo in questi giorni ricomin­cio a scrivere lettere, a lavora­re e a vivere un po'».
L'ho ritrovata pochi anni dopo a Roma: era stupenda, con la minigonna, una bellis­sima camicia dorata, i capelli corti, biondi alla Marilyn. E senza Max Frisch.
Sembrava felice.