Recensioni / Enzo Melandri, I generi letterari e la loro origine

I generi letterari e la loro origine è un testo che, come sempre più di rado accade, si arrischia in un’operazione coraggiosa. Alla finalità dichiarata: il ripensamento della liquidazione crociana dei generi letterari, risponde un’organizzazione della materia tematica inusuale e del tutto priva di riserbi sistematici. Non solo la questione della divisione in generi, tradizionalmente assegnata alla critica letteraria, è da Melandri rivisitata da una prospettiva insistentemente filosofica. Ma ogni confine tra le discipline è sospeso: esse convivono, come diverse prospettive teoriche, in un lavoro che si rivela quasi per natura fortemente eterogeneo.
Il testo, un quasi-inedito di cui per la prima volta è offerta un’edizione compiuta, è configurato in sette brevi capitoli, sprovvisti di titolo e integrati da un’appendice conclusiva. Si direbbe che l’autore lo abbia composto attorno a due questioni, solo in parte emergenti: la mimesis, già da Platone individuata quale discrimine nella valutazione dei generi, e – seguendo una suggestione offerta dalla prefazione al testo – il linguaggio, indagato nel suo difficile rapporto con il mondo.
Il lettore che si interroghi sul metodo approntato ne troverà cenno nella citazione in esergo, con la quale è affidato alle parole di Walter Benjamin il monito per cui “l’origine non ha nulla in comune con la genesi” (p.17). Ma la distinzione tra Ursprung e Entstehen non implica, come verrà presto chiarito, che “il significato originario si colga meglio agl’inizi che alla fine di uno sviluppo storico” (p.30). È a partire dalla fine dei generi, attraverso la loro storia, ma verso un aldiquà di quella, che va ricercata, “in obliquo, ἐν παρέργῳ” (p.30), la loro esigenza.
Costituisce l’esordio del testo una trattazione, rapida e significativamente situata nel cap.0, dell’insostenibilità della proposta di Croce. La pretestuosità dell’argomento è però presto svelata: l’autore affida già al capitolo successivo il compito di aprire la ricerca di quell’origine, liberandola dalle incertezze della sua genesi storica. La polemica crociana contro l’irrigidimento dei generi si era infatti risolta in una decisa avversione per essi, degradando in un insostenibile riduzionismo. Melandri parla di un “massacro”: la rinuncia ai generi provoca, con Croce, il collasso “di tutte le arti a letteratura” e dell’intera letteratura “a lirica” (p.25). Un’intenzione organizzatrice si rivela cioè ragione distruttiva – ed è da qui che si rende urgente ripartire.
La proposta dell’autore è di tornare a Platone, ma solo nella misura in cui è possibile rileggerlo “presocratico” (p.48), un Platone antico, ancora in grado di rappresentare, in una storia del pensiero altrimenti considerata univoca, “l’opposta faziosità, giacché non ha mai avuto modo di esprimersi” (p.84).
La spiegazione platonica contenuta nel libro III della Repubblica è con cura ripercorsa da Melandri. Vi leggiamo della genealogia dei generi a partire dalla loro commistione, l’epos o “genere misto” che li raccoglie e che presiede alla tripartizione successiva (epos, dramma, ditirambo).
Melandri, però, è alla ricerca dell’origine. E la ritrova nella mimesis: Platone l’ha incaricata di costituire “l’ἴδιον o carattere determinante” (p.32) nella divisione dei generi – è nella misura della loro forma mimetica che i generi infatti differiscono tra loro. Di questi il testo può finalmente disfarsi, poiché la mimesis sarebbe divenuta con Aristotele “totale”: non più solo carattere della produzione letteraria, ma fondamento stesso di ogni produzione umana.
Un primo passaggio sensibile ha luogo a quest’altezza: la mimesis diviene “applicazione di regole o principi generali” (p.33). La questione dei generi passa definitivamente in secondo piano, affidando al lettore il compito di individuarne la presenza nelle fasi successive della ricerca; e il testo può finalmente esibire la propria ambizione filosofica. Prelevando direttamente da Metafisica A e con uno stile che gli è assai tipico, Melandri non esita a estendere il campo d’azione della “mimetikè poíesis” a tutto “il produrre, l’agire e quindi il farsi egli stesso [sc. l’uomo] per mezzo di regole generali”. L’uomo, in quanto fa, imita; ed è esso stesso il prodotto delle proprie imitazioni.
Nel nuovo tenore assunto dall’argomentazione si fa spazio una tesi, inedita e decisiva, che occuperà per intero la successiva materia del testo: “nell’intersezione tra Platone e Aristotele”, vi leggiamo, è intervenuta una “nuova gnoseologia” ed essa “sorge sul terreno dell’antica filosofia del linguaggio” (p.35).
È certo un merito del testo rammentarci la co-originarietà di pensiero sul linguaggio e teoria della conoscenza; l’autore li accosta con la naturalezza che deve essere stata dei greci, e che per noi pare perduta.
Il capitolo successivo può allora manifestare la colta confidenza dell’autore con la questione della “orthoépeia” o correttezza delle parole “per natura, φύσει, oppure per convenzione, νόμῳ” (p.35). La scrittura, in questi passaggi più meditata che altrove, svolge puntigliosamente il passo che da quell’antico dibattito sul linguaggio conduce all’esigenza di “isomorfismo” di conoscenza e realtà. E in verità, poiché è il senso “per convenzione” a essere risultato infine dominante, è un isomorfismo che, proprio in quanto privato del senso “forte” (quello φύσει) del potere mimetico, si risolve in non più che simbolico.
Il lettore vi riconoscerà un motivo tipicamente melandriano: tensione linguistica e rappresentazione del mondo soffrono di una “forte infezione aporetica” (p.41): l’una non potendo risolvere la rottura, di wittgensteiniana risonanza, tra l’esprimere il mondo e il “dire il proprio rapporto con esso”; l’altra risolvendosi in un “realismo debole”, in cui tutto, come già la lettura di Aristotele aveva mostrato, resta irrimediabilmente interno alla lente epistemico-mimetica, divenuta téchne.
Di fronte alla opacità che la storia ha riservato alla forma originaria, quella “forte”, della mimesi, la strategia proposta da Melandri mira espressamente, nel punto che può forse riconoscersi come compimento dell’intenzione originaria del testo, a individuare il “rimosso eracliteo” mai del tutto scomparso dalla teoria platonica. L’operazione è importante, e non sorprende che il testo debba in alcuni punti irrigidirsi. L’autore cerca cioè di far emergere un “Ur-plato”, in cui la teoria “non è ancora teorica” e il vincolo al “reale” si è mantenuto forte. Al tentativo sono dedicati interamente il quarto e il quinto capitolo, nei quali “l’intuizione originaria della dottrina delle idee” (p.43) è analizzata dalla prospettiva, a suo modo provocatoria, del “salvare il fenomeno” che le starebbe a fondamento. La μίμησις – questa sostanzialmente la tesi di Melandri – è comprensibile in Platone solo nel suo “rapporto dialettico” con la μέθεξις: la partecipazione conterrebbe cioè tracce di quel “realismo forte” (p.47).
Quando, nei capitoli seguenti, Melandri ricorrerà a fasi ulteriori di emergenza storica della traccia “eraclitea” suggerendo il permanere dell’origine, lo farà per rafforzare questo Platone “presocratico” (p.48). Da Vico a von Humboldt a Steinthal, autori rappresentativi di “queste un po’ sfortunate correnti di pensiero” (p.51), della mimesi si avrà coscienza come di una perdita. Melandri aggiungerà un solo elemento ulteriore di rilievo: la creazione, “antropologicamente” fondamentale, di un “terzo vertice”, un nascosto, un oltre o un Altro che, già per la “antiquissima sapientia”, avrebbe svolto il ruolo dell’assolutamente inconoscibile (p.54) – è la presenza del dio, o la sua esigenza, ciò di cui l’autore vuole qui riferire.
L’effetto sulla mimesi è decisivo: essa, o quel che ne rimane, diviene finalmente comprensibile per ciò che è: mimesi “del fare”; non le separate e ormai perdute cose, né le inconoscibili divinità vengono imitate, bensì la stessa “azione divina” (p.55). “Io posso cercare di copiare un vaso”, esemplifica con imprevista chiarezza l’autore, “però quel che in realtà imito – che io lo sappia o no – è l’arte del vasaio” (p.56). Ed è in questo senso che la storia della civiltà si sostanzia, sostiene Melandri, nell'imitazione del divino da parte dell’uomo” (p.65) – come imitazione del suo fare. È così “pragmatico” ovvero “tecnico” il criterio di verità che si è infine imposto.
Al lettore vigile il testo potrebbe apparire, a questo punto, portatore di una sistematicità inaspettata. I generi letterari si sono rivelati anzitutto modi della mimesi, di cui è carattere fondamentale una certa “presunzione di oggettività” (p.61). Essa inciampa tuttavia tra una gnoseologia che, nel dichiararsi mera convenzione, ammette la propria debolezza e autoproduce una teologia, e una tecnica che, in quanto anche sempre partecipazione, tenta di ovviare a quel limite strutturale. Un qualche fare ha soccorso, cioè, i vincoli del sapere.
L’ipotesi, suggestiva e argomentata, ha un esito quasi caricaturale: Melandri rivede nell’uomo imitante il pitecantropo, “risibile, degeneratore e surrogatore del principio da cui discende” (p.68). In pagine tanto acute quanto poco grevi, è narrato di come esso non riesca, come già i generi letterari dell’esordio, a coincidere mai del tutto con la propria “origine”, verso cui pure goffamente si sforza.
Se una tensione sotterranea del testo è data, allora essa si configura come un permanere, insolubile e definitivo, dello scacco mimetico.
Sorprende, foss’anche solo per l’audacia del passaggio, che uno spiraglio venga individuato dall’autore nell’esegesi biblica, ove nel “segno inverso della mimesi” è la divinità a creare a propria immagine l’uomo. Ma è solo per un momento: “mentre per i Greci antichi la scimmia era un animale grazioso e simpatico [...] dagli Ebrei fu invece tenuto per animale abominevole e immondo” (p.68).
L’urgenza, nell’oggi, per quell’intuizione originaria della dottrina delle idee è pari alla diffusa percezione del suo anacronismo. In ultimo Melandri tenta tuttavia di ricavarle uno spazio nel presente. Lo fa, lungo tutto il capitolo conclusivo e nella corposa appendice che segue, con i modi che gli sono propri: individua qualche momento – la Bildertheorie di Hertz, il “giudizio tipologico” di Weber – in cui alcuni aspetti della mimesi forte sono stati mantenuti, e li rilancia come possibilità per il presente.
La “dottrina delle idee”, in una funzione che diremmo allora antisimbolica, riappare così nella storia del pensiero, mostrandosi “per effetto di ‘rimozione’ o Verdrängung […], a un tempo sia arcaica sia eternamente di ritorno” (p.70).
Nonostante un’indifferenza quasi fiera per la propria comunicabilità al lettore, lo stile di pensiero che informa questo come altri e più noti testi di Melandri si rivela di fine pregio teoretico. Ne è forse merito più grande l’aver condensato in pochi significativi passaggi, elevati a paradigmatici, l’incerto percorso storico del meccanismo mimetico.
La mancanza di esaustività, assurta quasi a metodo, e il rifiuto di un confronto sistematico con le espressioni storiografiche del tempo rendono il testo espressione di pensiero diretto, che suggerisce e illumina ben più e prima che informare.
Il pretesto tematico della questione dei generi letterari può così aprire a una prospettiva che rischia di ambire alla totalità, nutrendosi di intuizioni colte e compiendo un testo breve ma con buona ragione lentissimo. Modello di concisione argomentativa, esso si rivela ignoranza del superfluo e brillante intuizione di cosa meriti, in ultima istanza, di essere tematizzato – ciò che da solo sprovvede il lettore, determinandolo a nuova ricerca.