Recensioni / Alcuni libri di critica: Zinato e altri

È un momento in cui stanno uscendo alcuni buoni, e persino ottimi, libri di critica letteraria sul Novecento e soprattutto sulla poesia e sul secondo Novecento. […] Un discorso a parte merita il libro di Zinato, che affronta temi diversi, comunque collegati alla mutazione avvenuta fra anni Sessanta e Settanta in Italia: la storiografia letteraria del secondo Novecento e la valutazione di "Officina" e del "Menabò", l'avvento della critica tematica (Zinato considera soprattutto il tema del corpo e del lavoro) e lo sviluppo di quella psicoanalitica (in particolare della teoria freudiana di Orlando), varie opere del secondo Novecento che affrontano la questione della "mutazione" (Calvino, Pasolini, Fortini, Volponi, Sciascia, Primo Levi) e altre che possono essere già definite ipermoderne (Affinati, Di Ruscio, De Signoribus ecc.). Mi occuperò di più di questo libro perché mi chiama in causa più volte soprattutto per la valutazione storiografica delle riviste "Officina" e "Menabò". La valutazione di "Officina" della critica negli anni Settanta e Ottanta era segnata dall'avvento del Gruppo 63, che aveva profondamente modificato un quadro letterario solo scalfito, invece, dalla rivista di Pasolini. La quale appariva allora incapace di ridefinire il ruolo dello scrittore negli anni del boom economico, limitandosi a un aggiornamento esclusivamente letterario e restando nel solco della italica tradizione. Questo giudizio, che anch'io avevo dato trentacinque anni fa, resta a mio avviso valido nella sostanza (come avevano percepito allora gli stessi protagonisti, e soprattutto i più acuti, Pasolini e Fortini), ma va indubbiamente arricchito e sfumato. Con il passare degli anni l'impatto del Gruppo 63 tende infatti ad attenuarsi e le rotture di allora ad apparire meno profonde. Inoltre la rivalutazione di "Officina" avviata da Zinato può avvalersi di alcuni dati che indubbiamente esaltano aspetti ancora attuali della rivista: la coscienza della necessità dello sliricamento (anche se su questa strada i "novissimi", bisogna riconoscerlo, andarono ben più in là), la rifondazione della questione del realismo grazie all'apporto di Auerbach (gli avanguardisti preferivano invece gli strutturalisti e i semiologì), la consapevolezza della fine del "mandato" (più incerta però, a mio avviso, di quanto appaia a Zinato), il confronto coi temi della mutazione e con gli esiti formali conseguenti (la "confusione degli stili"). Quanto al "Menabò", Zinato ne suggerisce a ragione una continuità con "Officina", come d'altronde anch'io avevo sottolineato molti anni fa. L'elemento indubbiamente nuovo introdotto da Zinato è la sottolineatura vittoriniana del nesso problematico fra forma letteraria (o innovazione formale) e oggetti della modernizzazione italiana: a Vittorini, insomma, non interessava tanto introdurre nuovi contenuti industriali nella letteratura degli anni Sessanta, ma il modo innovativo con cui ciò doveva avvenire. Zinato procede per tocchi e affondi leggeri. È critico discreto, sottile ed elegante come pochi, ormai. Si ha la sensazione che sia ancora all'inizio e possa darci ancora molto.