Recensioni / Schmitt, il giurista del Reich. Una intensa confessione

Tra gli intellettuali rivoluzionario-conservatori Carl Schmitt (1888-1985) ha una posizione cruciale come ideologo che più di tutti gli altri si è posto il problema del potere, delle sue trasformazioni e delle sue convulsioni. Egli ha “lavorato” quanto più gli è stato possibile all’interno delle istituzioni fornendo non soltanto gli apporti teorici alla costruzione di uno Stato nuovo tedesco negli anni Trenta, ma anche concretando un sistema di legittimità che superasse le tendenze totalitarie, cosa che non gli riuscì guadagnandogli anche la marginalizzazione da parte degli ambienti più radicali del Terzo Reich, particolare che per fortuna non sfuggì ai giudici di Norimberga che lo assolsero con un “non luogo a procedere”. A trent’anni dalla morte, il percorso intellettuale di Schmitt viene riproposto in Italia dalla pubblicazione di una lunga intervista, sotto il suggestivo titolo di “Imperium” dall’editore Quodlibet, che si presenta come una vera e propria autobiografia, realizzata quando aveva ottantatré anni, nel 1971, dallo storico Dieter Groh e dal giornalista Klauss Figge per la radio tedesca, sostenuta da un poderoso apparato di note approntato dai curatori che rendono ancor più comprensibile la parabola schmittiana.

Dal lungo racconto della sua vita, risulta evidente come lo studioso non provò mai ad estraniarsi dal contesto storico nel quale il suo lavoro teorico prendeva forma nella definizione delle categorie della politica, della critica alla nuova geopolitica sofferente dopo la fine del Trattato di Westfalia, e alla conseguente decadenza del Vecchio Continente in seguito alla cancellazione dello jus publicum europaeum (il diritto interstatale che delimita l’ordinamento spaziale della res publica cristiana medioevale). E per di più in che modo si poneva il problema della sovranità ragionando attorno alla figura del “decisore”. Temi condivisi ormai da tutta la politologia più avanzata, senza pregiudizi di sorta. Nell’intervista biografica, ricca di curiosità di straordinario interesse sulla sua formazione e sull’ambiente familiare, espose senza reticenze i più problematici momenti della sua vita ed in particolare come divenne suo malgrado “giurista del Reich”, una posizione che gli avrebbe permesso di giudicare uomini ed eventi con grande lucidità, così come con smagliante sincerità confessò la sua critica al progresso illuministico e la sua fede cattolica supportata dalla frequentazione dei pensatori controrivoluzionari. Vita pubblica e vita privata s’intrecciano in questa intensa “confessione” dalla quale viene fuori il senso di una lunga vita votata alla scoperta dei fondamenti reali della politica e della centralità dello Stato come “ordinatore degli ordinamenti”. Da qui la sua “inimicizia” totale verso la modernità affossatrice di ogni principio regolatore dell’esistenza umana. E l’avversione, mai nascosta, all’irrealismo utopistico distruttore delle strutture “naturali” che spesso ha dissodato il terreno su cui è germogliato il seme totalitario.