Recensioni / Fortini contro il sionismo. Un'autobiografia militante

Nel quadro di un'intelligente politica di riedizioni fortiniane operata dal Centro studi Franco Fortini di Siena, la ristampa di questo libretto, uscito nel 1967 da De Donato e poi ripreso da Einaudi nel 1979, non giunge soltanto opportuna - affermazione del tutto ovvia quando si parla di Medioriente, dove la tragedia, purtroppo, mai si raffredda -, ma è impreziosita dalla veste editoriale e dall'aggiunta della Lettera agli ebrei italiani, apparsa sul "manifesto" del 24 maggio 1989, che fece al suo apparire non poco scalpore. Già che si era sulla buona strada della filologia non avrebbe guastato accludere il più difficilmente reperibile articolo del 1946 sulle partenze dei sopravvissuti di Auschwitz dai porti italiani su imbarcazioni che intendevano forzare il blocco inglese contro l'immigrazione (Ebrei clandestini dalle nostre coste), articolo apparso su "La Lettura", che va invece assolutamente riletto perché fa maggiore luce sul passo del libro certo più intenso, dedicato, scrive Fortini, "agli ebrei che mi hanno aiutato a capire qualcosa dell'ebraismo", uno dei punti più elevati nella contrastata storia del rapporto fra intellettuali italiani e sionismo nella seconda metà del Novecento.
Di questa storia Fortini rappresenta un capitolo essenziale, pur nell'asprezza del suo ragionare, da mettersi accanto alle pagine non meno aspre di chi, tuttavia, fece il passo che Fortini mai fece, e cioè in Israele si recò per rendersi conto direttamente se colà insomma esistessero o non esistessero "i cani del Sinai" (la locuzione "fare il cane del Sinai" appartiene al dialetto dei nomadi beduini, l'interpretazione oscilla tra "correre in aiuto del vincitore" e "stare dalla parte dei padroni"). Sul Sinai non ci sono cani, dice Fortini. In Italia, invece, sì: la penisola nel 1967 anzi era piena di corridori in aiuto del vincitore (oggi, poi, non parliamone). Nel denunciare i tratti di questo conformismo, Fortini è molto efficace, anche quando denuncia l'esacerbato filoarabismo del Pci, partito dove non mancavano certo i cani del Sinai, bene adagiati all'ombra dei carri sovietici.
Sul Sinai però Fortini non ci volle mai andare e i suoi cani rimangono, per questa ragione, troppo italiani e troppo poco sinaitici, privi cioè di quel gusto concreto del reportage che invece ritroviamo in pagine altrettanto alte e spinose: penso ai memorabili servizi per "L'Europeo" di Ennio Flaiano, che mise a nudo le lacerazioni della società israeliana, o alla crudezza dei resoconti di Pasolini, quando girava gli esterni di Medea, o all'animo, certo più simpatetico nei confronti della società israeliana, con cui Montale, servendosi del viaggio di Paolo VI e scrivendone sul "Corriere", faceva sì i conti con il suo passato di amico di Bazlen, di Schmitz, di Debenedetti, ma anche s'interrogava sul puzzle mistico di una città come Gerusalemme.
I cani del Sinai sono un documento della scrittura oracolare di Fortini. Il tono della sua prosa s'innalza a livelli di una scrittura che mima il Salmista e parafrasa Isaia. Difficile rimanere indifferenti a una prova stilistica così alta. Per rileggere il libro, e apprezzarlo, bisogna preliminarmente scrostarlo da una vernice che risente del momento politico in cui fu scritto, nei giorni che immediatamente seguirono la guerra dei sei giorni. La lettura in chiave coloniale del sionismo lo porta ad affermazioni che oggi sembrerebbero spropositate agli stessi Weinstock e Deutscher che ispirarono Fortini, non meno che agli stessi giovani storici israeliani come Benny Morris e Tom Segev che sulle colpe di Israele la pensano come lui; il peso dell'ideologia, bisogna dirlo, porta Fortini anche a qualche sentenza ingiusta, come l'attribuire al colonialismo europeo l'installazione di Lager "più vasti di quelli nazisti", dove sarebbero stati distrutti "più numero di milioni di vite umane di quante non ne avessero dissolte le SS".
Il lavoro di scrostatura si fa tuttavia volentieri e non costa soverchia fatica, perché resiste all'usura del tempo la componente autobiografica, che nel libro è predominante. Fortini si schermisce, dicendo che parlare di sé è un'astuzia retorica, e nella nota di dieci anni dopo troverà addirittura "meschino" aver voluto interrogare insieme, su una stessa pagina, gli avvenimenti arabo-israeliani e la propria vicenda biografica. L'autobiografia, in verità, è ben più di una funzione retorica: il lettore odierno lo capisce subito; gli avvenimenti mediorientali non sono che un'occasione drammatica per stendere un vero "patto autobiografico" che dall'infanzia si protende alla maturità. "Mi si vuole schedare?", si chiede al termine di uno dei primi paragrafi: "Queste pagine sono la mia scheda".
Dell'autobiografia I cani del Sinai conserva una venatura a tratti decadente, nel senso più alto del termine - che invece produce non poco fastidio nella versione cinematografica che nel 1978 ne diedero Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Il decadentismo è palese per esempio nella descrizione della malattia che precede la conversioneal protestantesimo del 1938: "Era primavera avanzata, caldo. Sdraiato nel letto dei miei genitori, sfinito dalla febbre, vedevo sotto il lenzuolo la forma del ventre gonfio…"; una conversione su cui aleggia il sospetto della scelta opportunistica: "Con quanta serietà penosa ho ricevuto il battesimo… con che vergogna anche: non di apostasia ma di ipocrisia". Un dubbio che rode nella coscienza dell'uomo adulto: "Avessi avuto l'opportunismo tranquillo, il cinismo salubre che sarebbe stato necessario per rispondere a quei provvedimenti, così cinici e stolti a rileggerli oggi nei libri degli storici. Avessi almeno conosciuta la storia delle conversioni forzate, o d'opportunità, dei secoli passati…". Fortini avverte il lettore: "Queste pagine non sono un'appendice al Giardino dei Finzi Contini", e ha ragione. Bassani è per lui il prototipo della "melensaggine editoriale e filmica cresciuta sulle fosse ebraiche 1939-1945", eppure qualcosa nei Cani dei Sinai rimane del mondo ebraico-borghese di un libro come Gli occhiali d'oro, né si spiegherebbe in altro modo una parte fondamentale del Fortini autobiografo, e cioè l'ambivalenza della figura del padre, il cui antifascismo giovanile è in verità forse un po' enfatizzato, quando ciò che rimane vivissimo in noi è il ritratto di un borghese colto di sorpresa davanti all'inatteso 1938.
L'acredine contro il conformismo troppo schierato a favore del nazionalismo israeliano del Fortini adulto, giustamente adirato nel vedere i suoi più vecchi amici diventare d'un sol tratto difensori della peggior propaganda antiaraba, risente di quella ferita mai ben cicatrizzata e al tempo stesso rende più umana - e dunque più vicina a noi - la sua ferma volontà di tenersi al di qua dei semplici schieramenti partitici.