Il 15 giugno 1967 aerei israeliani attaccano e distruggono l’aviazione egiziana prima che si possa levare in volo. Inizia la “guerra dei sei giorni”, che si chiuderà con grandi conquiste territoriali per Israele (tra cui gli attuali territori occupati di Cisgiordania e Gaza) e un ingente numero di profughi arabi e palestinesi. Ancora oggi gli storici discutono se si sia trattato di un attacco preventivo, della risposta a una minaccia concreta (l’esercito egiziano era da tempo dispiegato ai confini) o di una aggressione premeditata. I media italiani dell’epoca non hanno dubbi: ad attaccare è stato l’Egitto, come affermava la versione ufficiale israeliana. La logica dell’imperialismo e della guerra fredda impone menzogne e semplificazioni sulla pelle dei popoli, trascurando il loro bagaglio di aspirazioni e sofferenze. Da una parte, con Israele, l’Occidente liberale (e neocolonialista); dall’altra, con il nazionalismo arabo e socialisteggiante di Nasser, l’Unione Sovietica e l’opinione pubblica comunista. Chiamato a pronunciarsi ora dai sotterfugi della propaganda anticomunista, ora da amici e parenti ebrei turbati dal suo silenzio, Franco Fortini scrive in quei mesi il breve libro, duro e affilato, ora riproposto da Quodlibet: I cani del Sinai (Con una Nota 1978 per Jean-Marie Straub e, in appendice, una lettera agli ebrei italiani del 1989; a cura del Centro studi Franco Fortini, pp. 95, Euro 8,50). I “cani del Sinai” non stanno la dove il titolo potrebbe far credere. Protagonisti di una locuzione araba inventata ad hoc, sono il simbolo sarcastico di chi è solito “correre in aiuto del vincitore, stare dalla parte dei padroni, esibire nobili sentimenti”. Erano quindi – e sono– piuttosto numerosi in Italia, disposti al trasformismo e all’oblio. Ai tempi del fascismo, pronti a entusiasmarsi per le guerre coloniali o la propaganda antisernita. Nel ’67, sostenitori accesi d’Israele, divenuto un simbolo del “progresso” occidentale, e dediti a rivolgere il loro vecchio razzismo contro un alrro “diverso”: l’Arabo. Contro di loro Fortini (alias Franco Lattes: figlio di un ebreo, prese il cognome della madre cattolica nel ’38, per sottrarsi alle leggi razziali, dopo essersi convertito al cristianesimo valdese) impugna il bisturi della sua prosa per sezionare la falsa coscienza. Si schiera, ma facendo saltare lo schema binario tipico della guerra fredda. Con la nascente Nuova Sinistra (i suoi compagni dei Quaderni rossi e dei Quaderni piacentini), legge le contraddizioni del presente dal punto di vista delle rivoluzioni anticoloniali: dopo la Cina, l’Algeria e Cuba, il Vietnam. E fa sua la prospettiva d’un grande marxista eretico ebreo: Isaac Deutscher (chi ci ristampa il suo L’ebreo non ebreo?). Ciò che importa non è schierarsi per un nazionalismo contro un altro, per l’una o l’altra grande potenza, ma “coordinare internazionalmente coloro che sono uniti dall’antagonismo sociale al generale meccanismo di sfruttamento”. L’anno dopo questa speranza rivoluzionaria sarà gridata dai movimenti. E, nel tempo, proprio le contraddizioni aperte dalla guerra del ’67 desteranno l’Intifada. Luca Lenzini ha spiegato che i saggi di Fortini, “framrnenti di tempo congelato”, conservano le tensioni e le scelte di un’epoca: leggere oggi queste pagine significa in effetti riscoprire un bivio dimenticato, un altro mondo che è stato possibile.
Ma la lama dell’analisi incide anche chi la impugna: seziona presente e passato, il versante pubblico dei rapporti sociali e i tessuti intimi della storia famigliare, fino alle zone più buie dell’inconscio. Perché Fottini è in primo luogo un poeta, che scrive versi tramati di pensiero filosofico, di storia e di politica, da leggersi anche come dei saggi. E così i suoi saggi vogliono essere letti anche come delle poesie: stesi in una lingua incisiva e durevole come quella dei classici, e intrisi di non conciliate esperienze interiori, di bruciante moralità utopica. Quindi questo suo intervento politico è, anzitutto, letteratura. Ma una letteratura che si assume una frinzione essenzialmente etica, perché vuole essere una provocatoria ricerca-proposta di verità. Indagata ed esposta nelle sue contraddizioni, anzi in forma di contraddizione. Scandita in ventisette paragrafi o lasse, la materia complessa e dolorosa della questione ebraica (e della Shoa), del fascismo, delle lotte anticoloniali, delle diverse forme di razzismo, delle strategie televisive di persuasione occulta, del qualunquismo conformista si incastra con flash memoriali sul rapporto contrastato e difficile di Fortini con le sue origini ebraiche, suo padre, le pulsioni conflittuali che strutturano il suo io profondo. Il montaggio istituisce cortocircuiti improvvisi, spiazza: il racconto più intimo viene a stridere con la riflessione filosofica, la vergogna e il lamento prodotti dalla persecuzione con la disciplina formale, il distacco della scrittura. La freccia del tempo, passata a contropelo dal giudizio etico-politico, si scheggia in franturni. Che riaccendono, negli orrori del presente, il dolore e lo sdegno per cicatrici e violenze remote. Il lettore comprende come la pressione della storia, le contraddizioni di classe possano agire fino negli psichismi più riposti, disegnare anche il profilo segreto dell’io. Questo libro è anche il “grido di ferito” di un’identità ebraica, una “diversità” subìta-scoperta a causa del razzismo fascista, quindi abbandonata, ma che brucia ancora nel profondo. E cerca di ridefinirsi: sarà figura-sintesi estrema del Perseguitato, dell’Oppresso. Esige che si ricavi dalla tragedia della Shoah “una lezione di lotta contro le condizioni estreme a noi note che rendono possibile la distruzione dell’uomo”. Pretende che lo Stato d’Israele si sottragga all’abbraccio dell’imperialismo americano e giochi la “funzione di una mediazione rivoluzionaria fra il cosiddetto Occidente di eredità cristiano-liberale e socialista e il Terzo Mondo”. Un altro bivio dimenticato. La costruzione “metrica” e la scrittura ellittica, il narrare per scorci concentrano in poche pagine una gamma impressionante di snodi storici, morali, teorici, che irradiano significati in ogni direzione. Idee complesse, che non celano le contraddizioni, e impongono ai lettori pazienza e attenzione. Come il film che ne hanno tratto nel 1978 Jean Marie Straub e Danièle Huillet. Nell’89 la speranza di rivoluzione si fa esigenza di pace: Fortini pubblica sul Manifesto una lettera (è in appendice) per invitare gli ebrei italiani a pronunciarsi contro la feroce repressione dell’Intifada. E difendere così l’immenso patrimonio culturale e morale dell’ebraismo, mantenendolo distinto dalle vicende dello stato d’Israele. Ma tra le righe afliorano antiche cicatrici: metafore che purtroppo evocano certa teologia cristiana sugli ebrei.
Libro scomodo, insomma, ferisce e svela ferite in ogni dove. È la sua vitàlità: scardina schemi, pregiudizi, ipocrisie, rimozioni. Provoca, discute e richiede di essere discusso. Ma anche tradotto in pratica, come nel progetto avviato a suo nome da sua moglie Ruth Leiser e dalla Cgil: raccogliere fondi “per realizzare un luogo d’incontro tra la popolazione palestinese e i pacifisti israeliani e per la formazione alla comunicazione per i giovani palestinesi” (Progetto Franco Fortini - Pace e sviluppo in Palestina, conto corrente n. 695, Abi 1025, Cab 1029).