Recensioni / Il milanesco di un milanese ritrovato

Spesso è una questione di ritmo vivere Milano e raccontarla, ma per stanare e amare certo battito della «brutta e mal combinata città» (Gadda) ci vuole orecchio, curiosità, fantasia e una buona dose di ironia. Sono qualità autoriali che non rientrano nel bagaglio poetico di tutti, è ovvio, e che certo sono diverse da chi rende Milano un Simbolone passateci l'accrescitivo metafisico da spingere ora in tragitti decadenti ora verso nuovi trionfi morali. È un'altra via, rasostrada e ormai meno frequentata, nonostante abbia una lunga tradizione lombarda, ed è quella di chi ne ruba piccoli episodi e personaggi nascosti e li fa ballare con la propria penna. Beppe Viola, che sta stretto nelle definizioni di «umorista» e «giornalista sportivo» che incorniciano la sua breve biografia milanese, scomparve a 42 anni nel 1982 ma fu anche sceneggiatore e autore di canzoni per Jannacci -, è uno di loro ed è bello riscoprirlo in Vite vere compresa la mia, titolo introvabile uscito per Milano Libri nel 1981, ritornato grazie a Quodlibet. Un libro nato dall'omonima rubrica che Viola tenne su «Linus» da11977, allora sotto la direzione di Oreste del Buono, cui si aggiungono alcuni testi più lunghi. Il risultato è un caleidoscopio del mondo dell'autore che attraversa le sue passioni e la sua città tra sport, politica, brevi racconti folli, stralci autobiografici, incontri. Dietro l'umorismo che lancia la pagina, ritorna frequente il filo teso di certa «incazzatura», soprattutto nei brani autobiografici sul proprio mestiere di giornalista iniziato da giovanissimo: dalla celebre Lettera al direttore, dove si legge «tengo duro per battere, sempre più modestamente, il primato mondiale di mancata carriera», a Vita da Rai e Olimpiadi del tubo.
Aperto da bellissime pagine sulle proprie origini, «Mio padre giocava ai cavalli, mio nonno a scopa...», la Milano di Viola passa tra luoghi ricorrenti come San Siro, lo Stadio e l'Ippodromo, la Rai di Corso Sempione che diventano improvvisamente teatri di storie dove si incontrano personaggi di ogni genere, bari, ladruncoli, donne che fanno «la vita». Il tutto è accompagnato da una lingua che Stefano Bartezzaghi nell'introduzione chiama «milanesco» ovvero un milanese «furbesco, un gergo iniziatico», fatto di parole come «sbarellare» (essere in crisi) o «far la bella»
(evadere). Una lingua che sgorga da un modo dialettale di prendere la realtà, duttile e esatta per render conto dei margini della città attraversati in certe condizioni, come recita un incipit: «Ubriachi di miseria e di bianchini, costeggiamo il Naviglio in una notte senza fine».
Sono flash di una Milano che non c'è più, pre-Berlusconi e sul confine di quella da bere, attraversati anche dagli amici di Viola come Enzo Jannacci e Cochi e Renato, personaggi letterari scattanti e surreali nelle sue mani. È una voce cui ci si affeziona per i toni Gino Cervi nella Nota editoriale la avvicina giustamente a quella di un altro irregolare milanese, Giovanni Gandini e che il lettore porta con sé tra il divertito e il nostalgico.

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