Recensioni / Superstudio, che invenzioni!

Il 14 dicembre 1966, a un mese esatto dalla terribile alluvione che mise in ginocchio Firenze, alla galleria d'arte Jolly di Pistoia si inaugurò la mostra «Superarchitettura». Vi esponevano un gruppo di giovani architetti, compagni di universitàArchizoom e Superstudio e nonostante il suo principale animatore, Adolfo Natalini, la ricordi ancora come una «barracconata, ma allegra e divertente», la mostra si rivelò, alla lontana, come un vero tsunami. Per qualche tempo, infatti, Firenze non fu più solo la città di Brunelleschi ma si scoprì epicentro di una rivoluzione consacrata nel 1972 al MoMA di New York nella mostra «Italy: the new domestic landscape». Cos'era la «Superarchitettura» annunciata da un misterioso manifesto giallo attraversato da una S rossa? Era «l'architettura della superproduzione, del superconsumo, del Supermarket, del superman e della benzina super». In altri termini la prefigurazione della società globale che Guy Debord aveva appena identificato come la «società dello spettacolo».
Gli anni '6o finivano nei roghi delle rivolte studentesche e nelle utopie dell'immaginazione al potere: una nuova generazione premeva per entrare nella Storia e, nonostante oggi si tenda ad attribuire a quella cultura tutti i difetti di una dittatura illiberale, la spallata aprì nuovi orizzonti ponendo il problema del ruolo dell'arte nella costruzione di una nuova società.
Quel che sorprende è come il fuoco in Italia si fosse appiccato nella periferia e non nei grandi centri urbani: argomento di riflessione sulla forza nascosta della provincia italiana, ancor oggi sottovalutata dal ridicolo snobismo dell'informazione e della politica.
Ma in che consisteva questa rivoluzione di Superstudio che ora viene riproposta da una mostra (con catalogo) e da un libro a testimonianza dello sguardo più fresco e meno ideologico con cui i "nuovi" giovani riescono a leggere i loro lontani predecessori? Non tanto nell'assemblage di mobili e oggetti colorati e inusuali della mitica esposizione di Pistoia, quanto nella produzione immediatamente successiva con cui Superstudio si impose sulla scena internazionale, bypassando l'interesse distratto delle eminenze culturali e politiche di allora.
Nel 1970 a Milano vengono esposti i primi fotomontaggi del progetto più famoso e ricco di conseguenze, il Monumento Continuo: una superficie, estesa all'infinito come una tavola da scacchi senza pedine, scorreva come un nastro inesorabile lungo il globo terrestre. Affiorava come un iceberg algido e neutrale, come un rullo compressore che spianava Manhattan facendo emergere solo isolate punte di grattacieli. Oppure si prolungava nell'invaso barocco di piazza Navona lasciando sullo sfondo le cupole di Roma: o penetrava in solitari paesaggi di deserti e di ghiacciai, di montagne brulle nel Nevada o nell'Arizona, con pedane artificiali per hippies sopravvissuti a qualche migrazione epocale e dunque primitivi del giorno dopo.
Il monumento non era un elemento isolato , ma "continuo": una "cosa" aliena nella sua perfezione geometrica che riscriveva il mondo fino allora conosciuto in una geografia dai contorni inquietanti o esaltanti a seconda del punto di vista. Le immagini erano forti e stranianti: usavano la tecnica del fotomontaggio con mani però abituate alle minuzie del disegno: erano classiche e futuribili al tempo stesso e il loro impatto non è mai stato sminuito dal tempo. La sequenza costruiva una storia e questa adoperava il format del cinema o del fumetto: raccontal'esordio di una nuova civiltà, l'assetto di un futuro immanente, ma per niente rassicurante.
Non si trattava infatti di utopie come quelle proposte dagli inglesi Archigram dove la tecnologia prometteva la visione di città meccaniche e perfette. Erano piuttosto incubi diventati quotidiana realtà. Anti utopie, le descriverà Adolfo Natalini, perché «noi ci rifiutiamo di coltivare utopie, impossibili fiori senza profumo, ma preferiamo essere pastori di mostri», quelli stessi che «strisciano nelle nostre case e negli angoli sporchi delle nostre vie».
Più denuncia dunque che evocazioni di impossibili perfezioni, le "cartoline" dal domani del Monumento Continuo raffiguravano l'invadenza di una realtà anticipata di cui solo oggi comprendiamo appieno la profezia e la validità: quasi che, come ipotizza Angelikadis ad esempio, la sua superficie quadrettata potesse prolungarsi nella rete immateriale di internet. Dietro la loro apparente chiarezza si cela infatti un lato oscuro ed enigmatico, un quid che tocca il fondo segreto di ansie e paure davanti le scosse della modernità e che Mastrigli ha cercato di dipanare nella sua storia della «vita segreta del Monumento Continuo». Ordinata come un catalogo dell'attività ventennale di Superstudio, la mostra milanese si presenta nelle vesti di un archivio, con stanze segrete dove la sequenza dei progetti dal Monumento agli Istogrammi agli Atti Fondamentali sí confronta con il lavoro di artisti contemporanei scelti come potenziali risposte agli enigmi di Superstudio. Ma anziché sciogliersi, l'enigma conferma la natura complessa di Superstudio, grazie anche alla sua felice intuizione di sostituire le immagini alle parole della teoria: le parole invecchiano, le immagini condividono a natura dell'arte che, quando si fa profonda e profetica, nasconde le sue radici nel gioco infinito delle possibili interpretazioni.