Recensioni / Un tormentato Fortini riscopre le sue origini

Nel  1967, a caldo rispetto alla “guerra dei Sei giorni”, Franco Fortini sente la necessità di intervenire sulla questione che contrappone israeliani e arabi, anche in virtù delle sue radici ebraiche. Sceglie come strumento un breve libro, I Cani del Sinai, una specie di quaderno autobiografico in cui mette in luce, con la lucidità che contraddistingue la sua prosa, il suo essere “contro”, posizione allora non facile da prendere per lui. Così, tra racconto e memoria autobiagrafica, tra invettiva e mediazione morale, Fortini non giustifica l’attacco israeliano e condanna la possibilità dell’uso della guerra per risolvere una questione ancora aperta.
Fortini non è contro lo Stato d’Israele, anzi ne valuta positivamente la prospettiva che potrebbe avere nell’equilibrio internazionale. Scrive infatti: “Sono persuaso che il mondo intero abbia da aspettarsi molti vantaggi dall’esistenza e dallo sviluppo dello Stato d’Israele. Il maggiore è probabilmente – tutti lo hanno detto – quello d’una sua possibile funzione di mediazione rivoluzionaria fra il cosiddetto Occidente di eredità cristiano-liberale e socialista e il Terzo Mondo, funzione fino ad oggi mancata”.
È un libro che invita alla pace, a trovare una soluzione ed è un testo asolutamente sincero, in cui Fortini ha voluto “chiarire a se stesso la storia di un combattuto rapporto con le proprie origini”. Nel 1976, quando Jean-Marie Straub e Danièle Huillet trassero un memorabile film dal libro di Fortini, l’autore scrisse una nota in cui ricordava il clima con cui nasceva questa sua necessità di invettiva: “I cani del Sinai è stato scritto con ira, a muscoli tesi, con rabbia estrema. La sua disperazione è ancora giovanile; maschera malamente la speranza”.
La nuova edizione approntata dalla casa editrice Quodlibet di Macerata – che pubblica anche materiali inediti di Fortini in “L’ospite ingrato”, un periodico del Centro Studi Franco Fortini – ripercorre il complesso rapporto tra Fortini e l’ebraismo. Interessante è poi la scelta di ripresentare la “Lettera agli ebrei italiani” pubblicata da Fortini nel 1989, dove il poeta invita a distinguere tra politica israeliana ed ebraismo e si augura che gli ebrei prendano parola e posizione sui termini della guerra, senza il rischio di pensare a possibili nuove forme di antisemitismo. Per Fortini la guerra rischia di neutralizzare il passato, la sua coscienza, lo stesso sacrificio dell’Olocausto: “Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti”.