L’idea di mondo è la nuova edizione ampliata di un libro ormai classico, che Paolo Virno pubblicò nel 1994 per manifestolibri con il titolo Mondanità. Il testo era composto dal saggio omonimo e da un altro intitolato Virtuosismo e rivoluzione, ai quali ora se ne accompagna un terzo, scritto nel 2014: L’uso della vita.
Quest’ultimo – avverte l’Autore – non è da considerarsi come
un’appendice o un «contrappunto al canovaccio teorico elaborato
vent’anni or sono», bensì come una sorta di «enunciazione stenografica,
scandita da tesi perentorie, di un programma di ricerca ancora da
realizzare».
Muovendosi costantemente di qua e di
là dal crinale che separa filosofia e politica, cercando di produrre
ovunque sia possibile la scintilla che solo attraverso il mantenimento
della loro distanza mette in comunicazione riflessione teorica e analisi
politica, Virno riesce ad indicare le ambivalenze fondamentali, e
dunque i luoghi di un conflitto possibile, che le forme di vita
contemporanee ci presentano.
Il problema di fondo che attraversa
l’intero testo, forse anche quello più urgente, riguarda i rapporti
variabili e complessi che sussistono oggi tra poiesis, praxis e theorein, ovvero tra lavoro, azione e pensiero. Già Virtuosismo e rivoluzione si apre con la constatazione (attualissima, come suggerisce fra l’altro la sua ripresa nel recente lavoro di Daniele Giglioli, Stato di minorità),
per cui «nulla sembra così enigmatico, oggi, quanto l’agire. Enigmatico
e inattingibile». Virno rende ragione nel modo più chiaro di questa
nostra difficoltà nei confronti dell’agire politico, mostrando come essa
dipenda dal fatto che il lavoro contemporaneo ha «assorbito i tratti
distintivi dell’agire politico», avendo messo a valore le stesse facoltà
umane in generale (e in particolare l’intelletto) che costituiscono la
strumentazione basilare di ogni agire: «nell’epoca postfordista, è il
Lavoro a prendere le fattezze dell’Azione […]. Rispetto a un Lavoro
carico di requisiti “azionisti”, il passaggio all’Azione si presenta
come una decadenza, o, nel migliore dei casi, come una duplicazione superflua […]. Meno complessa del lavoro o troppo simile a esso, l’Azione appare comunque poco desiderabile».
Nella «combutta» tra lavoro e
intelletto, che contribuisce alla neutralizzazione dell’agire politico,
si nasconde però non solo una novità (rispetto alla loro classica
separazione), ma anche l’opportunità di rovesciare il segno attuale di
una relazione che sottomette l’intelletto generale alle esigenze della
produzione: «L’intelletto diventa pubblico allorché si congiunge al
Lavoro; tuttavia, una volta congiunto al Lavoro, la sua tipica
pubblicità è anche inibita e distorta […]. Evocata in quanto forza
produttiva, essa è sempre di nuovo soppressa in quanto sfera pubblica
propriamente detta, eventuale radice dell’Azione politica, diverso
principio costituzionale». La sfida che continua a presentarcisi è
dunque quella di sviluppare il carattere comune e pubblico
dell’intelletto «al di fuori del Lavoro e in opposizione a esso».
La caratteristica principale di
questo intelletto – che da Averroè a Marx ha fatto del pensare la
prerogativa di un «noi», piuttosto che di un isolato individuo pensante –
è la stessa di tutte le cose suscettibili di un utilizzo che non
consuma, ma realizza potenzialità; l’intelletto, come «la cucina, il
computer, il dizionario», è qualcosa di presente ed effettivo, nel senso
che si realizza in concreti atti di pensiero situabili nello spazio e
nel tempo, i quali tuttavia non fanno che manifestare sempre di nuovo il
carattere potenziale dell’intelletto, il realizzarsi del suo essere
possibile. La sottomissione dell’intelletto al lavoro consiste
precisamente nella cattura di quella realtà del possibile, cioè nella
messa a valore delle facoltà comuni (predisposte a un uso ripetuto e
plurale, dunque di diritto inappropriabili), come se fossero invece
«beni consumabili una sola volta e da un unico soggetto». Sta
esattamente in questa discrepanza tra l’inappropriabilità della vita
comune e la sua appropriazione indebita «l’asse portante del capitalismo
contemporaneo, ma anche un focolaio della sua crisi permanente».
In questo modo, Virno può riprendere, nel nuovo saggio sull’Uso della vita, alcune direzioni indicate in Mondanità,
portando ora al centro dell’attenzione il nesso che l’ambito
dell’intelletto generale, del lavoro cognitivo e della facoltà di parola
intrattengono con la vita stessa come elemento primo e ultimo in cui si
manifesta quella realtà del possibile che è l’essenza di ogni cosa
utilizzabile.
Da questa riflessione sull’uso della
vita non ci si aspetti uno scivolamento verso qualche forma di vitalismo
politico. La vita di cui si parla qui non rimanda all’idea di
un’energia primigenia e informe che per solo diritto di nascita
metterebbe in discussione ogni potere costituito. Vita è comune
intreccio di linguaggio e azione, tessuto sensibile, loquace e attivo,
del nostro mondo. Non è un caso che la nozione di vita abbia
caratteristiche per certi versi analoghe a quelle che già Mondanità
(mediante un corpo a corpo con Kant e Witgenstein) delineava a
proposito della nozione di mondo. L’uomo (e solo l’uomo, sottolinea
Virno sulla scia di Heidegger) si può dire che abbia un mondo, in quanto
solo dell’uomo si può dire sia un «animale maldestro» (capace per
esempio di fallire nell’utilizzo del proprio stesso corpo), cioè in
quanto solo dell’uomo si può dire sia un «vivente distaccato da sé
medesimo, che mai coincide del tutto con le sue opere e i suoi giorni».
Nello stesso, identico senso in cui diciamo che l’uomo ha un mondo, diciamo anche che l’uomo ha
una vita, in quanto appunto non coincide interamente con essa, ma vi si
rapporta piuttosto come a qualcosa di cui può fare libero uso. Questa
distanza da sé e dal mondo, questo iato che dà luogo al
possibile, e che pertanto costituisce la condizione della libertà umana,
è anche uno spazio popolato dalle regole, dalle tecniche e dalle
istituzioni che consentono all’animale umano di sopravvivere alla
propria costitutiva lontananza da sé e dal mondo; questo spazio è la
condizione di possibilità tanto delle invenzioni più sublimi quanto
degli errori e degli orrori che caratterizzano la vita umana. Che si
consideri l’esistenza individuale o quella collettiva, il campo delle
regole e delle tecniche che strutturano l’uso della vita è sempre un
«campo di battaglia». Per questo la vita e l’uso della vita non possono
essere le parole magiche capaci di aprirci le porte di un mondo
finalmente liberato, bensì soltanto il terreno sul quale lottare contro
un certo uso in favore di un altro, contro una certa vita in favore di
un’altra.