«Per essere autenticamente moderna, l’architettura deve comunque
concorrere a rendere migliori le condizioni dell’abitare ». Aggiunto che
l’abitare non è relativo solo alla casa, ma a come ci si arriva, alle
scuole, alle biblioteche, agli spazi verdi, ai servizi collettivi che le
stanno intorno, è in poche parole che si racchiude la filosofia
anti-archistar di Carlo Melograni. 91 anni, a lungo professore, poi
preside di facoltà, progettista e, negli anni Cinquanta, militante
contro la speculazione che fece di Roma una capitale corrotta rendendo
infetta l’intera nazione, Melograni ha raccolto in un volume la
testimonianza di ciò che accadde fra la fine della guerra e il 1960
(Architetture nell’Italia della ricostruzione, Quodlibet). Ma non è la
sua solo una ricostruzione storica. La storia c’è, però, come recita il
sottotitolo, il filo che tiene insieme tante vicende e che poi si
allunga oltre il 1960, arrivando a noi e affacciandosi oltre, è il
conflitto modernità versus modernizzazione. Un conflitto che investe
l’architettura, ma non solo.
La modernizzazione «è agguerrita e aggressiva». Si fa forte dell'idea
che la velocità delle trasformazioni è tale da rendere difficoltoso se
non impossibile regolare queste ultime. Per cui non ci sarebbe altro da fare se non «interventi episodici, esageratamente
appariscenti e spettacolari, malamente componibili in un disegno urbano,
stupefacenti molto più che contrassegnati dalla loro utilità». La modernità, invece, «è portatrice di un modello sociale
avanzato», usa le innovazioni tecnologiche per rendere «sempre meno
disuguali le opportunità e le condizioni di vita». Melograni è seduto
davanti a una libreria componibile di fabbricazione svedese. È
importante per i suoi ragionamenti, e infatti è da qui che muove questa
chiacchierata. «Nel dopoguerra», esordisce, «il design industriale procedeva in maniera spedita
producendo oggetti fatti di elementi componibili. Erano economici e
accessibili. L'arredo si semplificava, mettendo ai margini l'imitazione
dell'antico». Le librerie svedesi, appunto. Ma l'architettura?
«Il sistema coinvolgeva anche l'architettura. Si potevano progettare
edifici partendo da elementi che si combinavano. Però anche la città si
poteva costruire in questo modo».
La città? E come?
«Le Corbusier inventò modelli di tipi edilizi che potevano essere
combinati fra loro adattandosi ogni volta alle diverse situazioni. Se
alloggi e complessi edilizi sono composti di pezzi da montare, anche
l'aggregato urbano diventa una machirte à habiter, spiegava Le
Corbusier. O, per usare un'espressione derivata dal Bauhaus, occorreva
progettare seguendo un unico criterio "dal cucchiaio alla città"».
Ma così non si rischiava una noiosa uniformità?
«La varietà si ottiene con le tante combinazioni di elementi uniformi».
Questo sistema fu applicato anche in Italia?
«Molto meno ché altrove in Europa. Tuttavia da noi ci s'impegnò per costruire case e quartieri per i ceti più deboli».
In Italia quali furono le soluzioni migliori?
«Il QT8, il quartiere realizzato a Milano dal gruppo di Piero Bottoni,
con al centro il Monte Stella, una collina artificiale formata dalle
macerie di edifici bombardati...».
Il Monte Stella che, secondo la denuncia di molti, rischia ora di essere stravolto. E poi?
«L'intervento dell'Ina-Casa di via Harrar, sempre a Milano, progettato
da Gio Ponti, Luigi Figini e Gino Pollini, e il complesso di via Feltre;
a Genova, ancora dell'Ina-Casa, il quartiere Bernebò-Brea; a Roma
l'unità d'abitazione orizzontale al Tuscolano e il Villaggio Olimpico.
Purtroppo è rimasto un disegno sulla carta il progetto per i dipendenti
dell'Anic a Gela. Poi, negli anni
Sessanta, il quartiere Matteotti a Terni, progettato da Giancarlo De Carlo».
Lei cita il Tuscolano, ma non il Tiburtino, dove pure lavorò come progettista. Perché?
«Lavorai in un gruppo coordinato da Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi. Ma
non rimasi soddisfatto. Lo stesso Quaroni disse che "nella spinta verso
la città, ci si è fermati al paese"».
Lei avanza molte critiche ai quartieri Ina-Casa, dove pure si
realizzarono 350 mila alloggi, uno sforzo gigantesco per l'Italia del
1949. Quartieri che, oggi, sommersi da edifici
di speculazione, conservano una spiccata personalità. Che cosa non le piaceva?
«Mentre già nell'Europa fra le due guerre i quartieri operai furono
concepiti come elementi di una moderna organizzazione urbana, da noi si
sono riprendevano forme simili a quelle di borghi
e paesi. Si credeva di renderli più accoglienti per coloro che
arrivavano in città dalle campagne. Si badò più alla loro cultura
d'origine che a integrarli nell'ambiente urbano. E invece un progetto
deve sempre guardare al futuro».
Complessivamente, però, quella stagione dell'architettura fu segnata da una forte tensione sociale. O no?
«Certamente. Quella tensione durò fino alla metà degli anni Cinquanta, per allentarsi nel decennio successivo».
Che cosa cambiò?
«Il miracolo economico modificò la committenza, che diventò
prevalentemente privata. Venne meno il lavoro di gruppo e ci si
concentrò sulle individualità. Il critico inglese Reyner Banham,
contestando questo rinnovato protagonismo, ammonì che la ritirata dal
moderno avrebbe portato il genere umano a liberarsi degli architetti
come un tempo si liberò di stregoni e di fabbricanti di pioggia».
Anni fa lei scrisse un libro intitolato “Progettare per chi va in tram”.
Che bilancio traccia di quell’architettura così aderente ai bisogni dei
più deboli?
«Positivo, soprattutto se si guarda all’oggi. Oggi si è smarrita ogni
idea sulla città. I partiti non sanno neanche che cosa sia».
Eppure il disagio abitativo è tornato a essere drammatico.
«Prevale la bizzarria competitiva, come l’ha definita Vittorio Gregotti.
E invece, “essere architetto vuol dire pensare la città come fine di
ogni fatto progettuale”, sosteneva Giovanni Michelucci. Siamo un paese
che non aspira alla modernità, ma all’ultima moda».
E quindi prevalgono i modernizzatori.
«Sì, quelli per i quali le regole da abolire non sono mai troppe. E che
si concentrano sulle Grandi Opere. Tutto questo accade mentre nelle
nostre città si sono costruite e si costruiscono periferie tra le
peggiori d'Europa e la forbice tra le poche opere d'eccezione e
l'invadente, scorretta edilizia corrente non si è ristretta, semmai si è
allargata».
E allora?
«Credo che per la cultura architettonica italiana uscire da una tale contraddizione sia la questione centrale e più urgente».