Recensioni / «Molto efficienti e sempre distratti: oggi siamo così». Un saggio sulle conseguenze della «connessione perenne»

E in libreria Ubicumque. Saggio sul tempo e lo spazio della mobilitazione di Fabio Merlini, filosofo, presidente della Fondazione Eranós, direttore della sede della Svizzera italiana dello IUFFP, l'Istituto universitario federale per la formazione professionale. L'editore è l'egregio Quodlibet (pagg. 160, euro 18); il libro, di gran precisione teorica, è di quelli che molto hanno da dire alla nostra quotidianità lacerata da quella che Merlini definisce «la catastrofe dell'immediatezza».
 Ubicumque: che cosa significa? «Le rispondo con il titolo che il saggio aveva nell'edizione originaria pubblicata a Parigi due anni fa: Schizotopies». Mi scusi: di male in peggio. «Ma no, mi segua: ho ripreso il termine "schizotopies" dagli studi sulla tecnica di Gunther Anders, fine anni '50. Riassume una condizione che nel frattempo si è radicalizzata: nell'ipertrofica circolazione di informazioni, suoni, immagini, pubblicità e capitali, tu non sei mai lì dove ti trovi, perché vivere in spazi non necessariamente coestensivi genera una radicale confusione tra esterno ed interno, pubblico e privato, dentro e fuori, prima e dopo. È lo spazio schizotopico, che ci strattona di qua e di là. Tuttavia, l'editore italiano ha preferito evitare il titolo Schizotopie. Troppo assonante con la schizoanalisi di eleuze e Guattari, con quella Francia d'inizio anni '70, l'antipsichiatria... alcuni lettori ne sarebbero stati fuorviati. Di fatto, io parlo da una differente prospettiva teorica». E così è andata per Ubicumque. «E qui lo spieghiamo: è il contrario del hic et nunc, del qui e ora. Oggi siamo nel qui e ovunque. Nessun spazio riesce più a tutelarsi dall'irruzione di comunicazioni che provengono, con il loro appello, la loro seduzione e la loro ingiunzione, da altri contesti normativi. È la ragione per cui va in frantumi l'idea che vi possa essere "un tempo e uno spazio per ogni cosa": il mio essere qui è potenzialmente un essere ovunque e a questo ubicumque corrisponde un "ora", un nunc, che schizza da tutte le parti, secondo le direzioni relative alle sollecitazioni cui è confrontato». In altre parole, siamo molto stressati. È una novità? «Ricorda cosa c'è in copertina al libro?» Un nastro di Mobius. «Riflette bene la natura del nostro stress. La novità, se così vogliamo chiamarla, è l'analisi filosofica di cosa significhi, quando a circolare è un certo tipo di prodotti, vivere in spazi incapaci di far valere il proprio diritto di non ingerenza: l'esterno che si riversa nell'interno e viceversa». Dal suo libro si evince che lo sviluppo della teletecnica, e del digitale, ha peggiorato le cose: perché? «È vero che mi sono soprattutto interessato agli aspetti negativi della faccenda. n questa nostra aderenza al "sempre connesso" risiede un potere di convocazione enorme, per il quale essere online significa essere presenti, cioè "essere in linea con il presente": e ugualmente esibire la propria disponibilità. Significa, quindi, disporsi ad una mobilitazione dove non è sempre chiaro chi sia ad approfittarne». Una manipolazione? Un ricatto? Un depotenziamento degli individui? «Mettiamola così: la vita ne esce paradossalmente monocolore, nella misura in cui smarrisce la sua pertinenza locale. È indifferente dove ti trovi quando sei connesso, il mondo è sempre in agguato ed è prudente non chiamarsi fuori. Il rischio è di vivere un'esperienza del tempo episodica, intermittente, ritagliata sulle emergenze del momento. Del tutto incapace di articolarsi sul piano della continuità e della durata».Si vive nell'istante: ci sono poi tutte queste controindicazioni? «Sì, se pensiamo a quanto "continuità" e "durata" costituiscano delle condizioni affinché possa articolarsi un dialogo con se stessi, e anche con gli altri: sono presupposti per la crescita individuale. Detto altrimenti: oggi puoi davvero ancora vivere fino in fondo ciò che stai facendo?». Le rigiro la domanda. «La risposta è sovente un "no" bello secco. La distrazione generalizzata che caratterizza ormai le nostre giornate è divenuta una qualità stessa del tempo. Lo vediamo bene nel momento in cui, a fronte del numero di mail che si accumulano, di sollecitazioni alle quali si deve rispondere, di informazioni di cui occorre prendere atto o di compiti rimasti inevasi, iniziamo a percepire che la lettura di una pagina di Proust o l'ascolto di una sinfonia di Bruckner sono una perdita di tempo. Questa è la conseguenza di ciò che, in un libro in uscita l'anno prossimo a Parigi, definisco la "catastrofe dell'immediatezza". Siamo sopraffatti da urgenze che mettono in primo piano la contingenza, chiedendo alla nostra attenzione di ri-orientarsi incessantemente». Ma la contingenza è come la ragion di Stato: intoccabile. La sua opinione? «Penso che l'Europa si sia sviluppata, e aggiungerei che si è pure arricchita, nel libero e gratuito esercizio del pensiero oltre la contingenza». Sulla scia di Ernst Junger e del fondamentale Der Arbeiter (L'operaio, nella traduzione di Quirino Principe per Guanda) lei parla di una «seconda mobilitazione». «Agli inizi degli anni '30, Junger vede come non ci sia più scampo allo scatenamento del principio in base al quale nessuna risorsa può essere sottratta all'imperativo della sua mobilitazione, attraverso un impiego totale dell'energia lavorativa. Ricorda molto l'oggi, vero? All'inizio il discorso di Junger era in gran parte militare, poiché partiva da un'analisi della Grande guerra, ma passò ben presto a generale. Altra intuizione di questo importante scrittore: alleata della mobilitazione è un'accelerazione senza precedenti del ritmo della vita. Grazie alla tecnica, la velocità è il nuovo tempo storico in base al quale si afferma il criterio dell'efficienza funzionale, indipendentemente dagli ambiti di vita coinvolti. Mobilitazione totale significa allora distruggere la distinzione tra lavoro e non-lavoro, una messa al lavoro di tutto ciò che è in grado di presentarsi in quanto risorsa»Junger immaginava che si sarebbe raggiunto un punto di equilibrio tra tecnica, uomo e ambiente. E lei? «Appare chiaro che una storia di questo tipo non è più credibile, inutile che ce la raccontino in cangianti retoriche: il solo livello di storicità possibile è quello inscritto nell'evoluzione progressiva degli oggetti tecnici. Una storia di successi che è la loro, ma non la nostra». Siamo schiavi digitali? C'è chi offre programmi di disintossicazione. «Il digitale può sprigionare un potere di attrazione tale da non lasciare scampo, conosciamo la patologia. Sappiamo poi che il suo successo dipende anche dalla sua capacità di far leva su alcune nostre fragilità come l'ansia di esclusione o il desiderio di apparire. Siamo stati travolti da strumenti per l'uso dei quali non vi è alcuna tradizione o educazione, alcun habitus. In questo senso, pensando all'etimo della parola, manchiamo di etica. Dobbiamo costruirla passo dopo passo, poiché è solo la marcia che fa trovare l'andatura giusta. Che qualcuno si proponga di soccorrerci, poi, mi sembra nell'ordine delle cose». Un suo titolo del 2009 parla di «efficienza insignificante». Un ossimoro.«È verificabile. Dietro il nostro iperattivismo produttivo scopriamo un vuoto che incrina il sentimento della certezza di sé. Ti impegni su questo e quest'altro fronte, sei sotto la pressione di sollecitazioni che stimolano i tuoi sensi e compiacciono il tuo narcisismo, eppure, nonostante la perfezione degli strumenti procedurali di cui ti sei circondato, nei rari momenti in cui riesci a stare con te stesso ti chiedi: "ma chi beneficia realmente di tutta quanta questa innovazione?". Una delle questioni centrali d'oggi è la liberazione del tempo, se con "liberazione" intendiamo il ri-orientamento del tempo in direzione di pratiche di valorizzazione eccentriche rispetto al calcolo del profitto».