Recensioni / La doppia identità dell'ebreo Fortini, cattolico per forza

Gli avvenimenti degli ultimi anni degli ultimi mesi delle ultime ore non hanno fatto che rendere via via più attuale il tormentato e tuttavia lucidissimo pamphlets sulla questione arabo-israeliana che Franco Fortini scrisse nell’estate del 1967 e che viene ora riproposto dall'editore Quodlibet di Macerata nel testo della ristampa emaudiana del '79 con l’aggiunta della Lettera agli ebrei italiani pubblicata da Fortini ventidue anni dopo (maggio '89) sul quotidiano il manifesto. Fortini non era soltanto, lo sappiamo, un poeta di prima grandezza, era anche uno straordinario intellettuale capace come forse nessun altro negli ultimi decenni di conciliare sottigliezza e fervore, distacco analitico e passione “di parte”; e basterebbe questo insieme stranamente armonico di qualità potenzialmente contrastanti a spiegare l'inquietante, persistente fascino di queste pagine. Ma c’è inoltre, in più, un elemento biografico: Fortini era figlio di un ebreo e la sua giovinezza fu fortemente segnata dalle vicende di di una conversione al cristianesimo imposta dall'orribile contingenza delle leggi razziali ma da lui vissuta anche come una vera e propria e mai del tutto sopita crisi di identità spirituale. Le considerazioni di carattere storico e politico formano così nei Cani del Sinai, un intreccio tanto peculiare quanto rovente con le domande sulle proprie origini sul proprio destino, sui propri rapporti con il padre (si veda il bellissimo, struggente frammento 24); a dispetto d'un apparente ideologismo di dichiarata matrice marxiana non c’è mai niente di astratto o di gratuito nei moniti che Fortini ci rivolge da queste pagine ed e davvero difficile non sentirsi correre un brivido per la schiena quando, per esempio, si viene invitati a non dimenticare che ciò che accade ogni giorno a Gerusalemme e nei territori ci riguarda tutti ebrei e non ebrei nel più diretto dei modi e che per ogni casa, per ogni vita che i soldati israeliani distruggono, “va perduta una parte dell'immenso deposito di verità esapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora”.