Con Carl Schmitt spesso si teorizza dimenticando il dato di realtà. Si ama partire dalle sue analisi per sviluppare complicatissime architetture di pensiero, teologico o filosofico, ma ci si dimentica che tutta la sua riflessione parte sempre da una situazione concreta, da una sfida politica reale. Indispensabile farmaco contro questa tentazione è Imperium. Conversazioni con Klaus Figge e Dieter Groh 1971 (Quodlibet, pp. 304, euro 26). Il libro riproduce una lunga intervista con il solitario di Plettenberg e fornisce un indispensabile strumento per orientarsi nel suo laboratorio teorico rinvenendo delle risposte alle sue scelte politiche. «Perché ha partecipato al potere politico di Hitler?» è la questione che fa da refrain a tutta la lunga intervista e a cui Schmitt non evita di rispondere. A parte la dettagliatissima ricostruzione degli eventi che conducono al 30 gennaio del 1933 quando Adolf Hitler si vede al Cancellierato del Reich e al 24 marzo dello stesso anno quando, ope legis, si ritrova caricato dei pieni poteri, emerge un elemento fondamentale. Tutto il lavoro di giurista di Schmitt, o per lo meno come lui stesso lo racconta, è segnato dalla sua viva partecipazione agli eventi politici e alla necessità di difendere gli elementi di statualità, e dunque di stabilità politica, che rischiavano di disperdersi: sia che si risiedessero presso la Repubblica di Weimar sia che sia che si aggrappassero al Furherprinzip. Si scopre così che la base portante del suo pensiero non è una preoccupazione teorica, ma esistenziale. È la difesa del cosiddetto katechon, vale a dire la forza frenante che deve opporsi all'avvento dell'Anticristo: tradotto in termini politici al diffondersi di una dilagante guerra civile. E questa forza frenante, in quegli anni, era lo Stato, sia che si trovasse dalla parte di Weimar sia che abitasse tra le braccia di Hitier.