Recensioni / Guerra dei sei giorni. Il conflitto di Fortini tra radici e politica

“Fare i cani del Sinai”, ci avverte Franco Fortini, è una locuzione popolare palestinese che significa sostanzialmente “correre in aiuto del vincitore”, “stare dalla parte dei padroni”. Quanto mai provocatoria dovette perciò suonare nel 1967 la scelta di utilizzarla come titolo di un pamphlet scritto a caldo, immediatamente dopo la Guerra dei sei giorni fra Israele e i paesi arabi. L’ebreo Fortini senti allora il bisogno di manifestare senza ambagi il disagio di un conflitto insanabile fra le proprie radici razziali e l’ideologia professata, fra l’adesione simpatetica alle sorti di un popolo orrendamente martoriato e il giudizio politico sulla condotta dello stato israeliano nel quadro di strisciante guerra fredda di quegli anni.
La nettezza della posizione espressa (il governo d’Israele considerato a tutti gli effetti la longa manus degli interessi americani in Medio Oriente, e dunque risibili - e semmai fomentate da speculare razzismo antiarabo - le accuse di antisemitismo rivolte a chi mette in luce tale situazione) non riesce comunque a occultare il doloroso travaglio da cui essa scaturisce: se il polemista ha buon gioco nello smascherare le manovre dei persuasori più o meno occulti che controllavano l’opinione pubblica, l’uomo è costretto quasi suo malgrado a riflettere sui suoi rapporti adolescenziali con l’ebraismo, sulle rare visite in sinagoga e sulla figura del padre, sefardita laico e giacobino, fedele semmai ai “principi dell'Ottantanove”. È una formazione quasi totalmente aconfessionale quella rammemorata da Fortini, che tuttavia lascia emergere nella più matura consapevolezza dello scrittore una misconosciuta forma di appartenenza: “Ora capisco che quel guardare indietro, in una attitudine di amore e lacrime verso il passato e i trapassati e di tensione e riso tremante per l'avvenire, quel non essere qui, era forse segno di reale appartenenza ad una tradizione dell'ebraismo, per quanto l'intelletto la rifiutasse”. L'istanza dell'autobiografia, evocata forse da un segreto bisogno di giustificazione, giunge a innervare e insieme a scompaginare la lucidità apparentemente granitica della scelta ideologica. Di qui, forse, l'aura drammatica che avvolge, nella lapidarietà dello stile, ogni ragionamento; e di qui, certamente, il senso sofferto di una ricerca della verità tanto strenua quanto impossibile, se appena si vada a scavare nella sostanza di qualche stanca parola d'ordine.