«Ancora tempesta». Un racconto «in scena» rievoca la famiglia materna dell'autore austriaco.
Una panca isolata nella brughiera stepposa, e quasi radicata sulle pendici della Saualpe, l'Alpe della Scrofa (o della Beatitudine), e un piccolo melo con 99 pomi di un rosso rinsecchito. È questo lo scenario di Ancora tempesta di Peter Handke. Lo scrittore austriaco (e sceneggiatore visionario: ricordiamo, Prima del calcio di rigore e Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders) ha scelto, per l'evocazione dei suoi antenati, il panorama onirico della Carinzia che confina con la Slovenia. Qui il piccolo melo assume la simbologia quasi escatologica di un novello «albero del bene e del male», i cui frutti incombono sulle teste non più dei primissimi progenitori ma degli avi postremi, una famiglia austriaca di minoranza slovena – quasi un'intera umanità – di cui Handke mostra di essere l'ultimo dei sopravvissuti.
Ancora tempesta – titolo di chiara ispirazione shakespeariana – è ora tradotto in Italia dall'editrice Quodlibet (Quodlibet che è anche titolo di un'altra opera di Handke; pp. 132, euro 15). Si tratta del poema di una perdita: perdita di tradizioni, di parenti, di illusioni, soprattutto di una lingua, che è linguaggio dell'anima (sicché nel testo abbonda lo sloveno carinziano). E, per quanto si presenti sotto forma di romanzo, il racconto è configurato come una pièce teatrale, con interventi dei personaggi in scena (spesso delle lunghe «tirate» da tragedia antica), e nessi narrativi chiaramente in forma di didascalie.
A essere evocata sulla panca e sotto il melo è la famiglia materna di Handke, come riaffiora nella memoria sfocata dello scrittore, quasi per una foto di gruppo in bianco e nero, cui partecipa buon ultimo anche lui, apparendo persino più anziano di quella madre, dei nonni e degli zii, il cui volto si è fermato nel tempo. L'ambientazione temporale è la seconda guerra mondiale; anni in cui Handke nacque (nel 1942), e in cui i tre zii maschi furono chiamati in guerra sotto la bandiera nazista; due ne moriranno; il terzo, Gregor, diserterà per passare con i partigiani titini, là dove militava già sua sorella Ursula (che veste la maschera di una Cassandra, sempre con la «faccia da temporale di due settimane», evocatrice di sventure), destinata anch'essa a morire nei boschi sloveni per mano ustascia.
Dalla tempesta bellica, si salverà lo zio Gregor, monocolo e agricoltore di mele e di pere, solo per lamentare una pace mai sopraggiunta e il crollo delle illusioni di libertà. L'euforia di una vittoria si rovescia in una nuova sconfitta, con gli alleati inglesi in comodo accordo con i nemici contro cui si combatteva poco prima. Su quelle Alpi della Beatitudine è, dunque, «ancora tempesta»: perché «la Storia si è completamente divorata la mia e la nostra vita, la gioia di vivere…», confiderà zio Gregor.
La perdita delle proprie case, dei propri terreni, del frutteto di famiglia è solo il riflesso di una cancellazione ancora più angosciosa: quella della propria identità, che si raggruma soprattutto in quella lingua, che non ha mai conosciuto una parola specifica per dire «io» (pronome nascosto sempre nelle desinenze del verbo); appunto perché in quel territorio alpino il primo valore non era quello soggettivo, ma quello collettivo.
Mentre cala il sipario su questa famigliare tragedia, i personaggi sciamano, destinati a disperdersi nella massa agglutinata. Ma con ultimi cenni di saluto, con le mani che emergono nell'aria: per avvisare gli altri dispersi, fagocitati dalla folla, che qualcosa ancora sussiste. Per poco, tragicamente.
Cosa resta, allora? Un ultimo perentorio comandamento: onora il padre e la madre. Onora quegli avi che con il tempo sono diventati figli del nostro amore; e alla cui morte si acconsente soltanto morendo; cioè, con il venir meno del nostro personale ricordo.