Definire significa anche delimitare: un concetto rimane sfuocato quando manchi un contrario che dall'esterno lo perimetri e lo circoscriva. E dunque, se il contrasto può favorire la precisione dei contorni, che contrasto sia. Per cui, ora che questi inediti ottimamente curati da Paolo Di Lucia e Lorenzo Passerini Glazel verniciano di smalto nuovo il pensiero di Kelsen, è bene partire da lì, proprio da coloro che contro il suo relativismo suonano la belligera tromba dell'Assoluto. Che ha conosciuto mille versioni, ma mai tirato così a lucido come con Papa Ratzinger il quale, senza rotondità diplomatiche, con un tu a per tu aperto e dichiarato, ha misurato tutta la profondità del suo disaccordo con Kelsen. Intendiamoci: per un tratto di strada (breve), i due possono anche procedere sincroni e non è detto che il linguaggio del Papa debba per forza riuscire ostico alla sensibilità di Kelsen. È così ad esempio quando proprio nell'occasione tedesca il Pontefice afferma che «un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell'azione politica effettiva. Ma – aggiunge – il successo è subordinato al criterio della giustizia». Questo è concetto che si può facilmente riformulare con le parole di Kelsen, per il quale le regole del diritto sono valide, ossia sono obbligatorie, se e finché sono inserite in un complesso di norme che non è sistematicamente disatteso e che invece è rispettato, se non sempre, almeno nella più parte dei casi. Per Kelsen, una norma è valida, cioè obbligatoria, quando si inscrive in un ordinamento che è complessivamente efficace (che ha «successo», direbbe Ratzinger). Ora, una volta subordinata l'obbligatorietà all'efficacia dell'ordinamento, si dà il caso che Kelsen – certo, pure lui – ha avuto ben chiaro che un ordinamento è tanto più efficace quanto più è giusto. Per dirla con le sue parole: «Se esaminiamo i motivi per cui gli uomini obbediscono il diritto, troviamo nelle loro menti … l'idea della giustizia». Esattamente come nel magistero ratzingeriano, anche qui il «giusto» decide della efficacia e quindi di rimbalzo della validità del diritto. Già: ma che cos'è giusto? Ora sì che cominciano gli affanni. Per Ratzinger la giustizia poggia su di un dato oggettivo e come tale fisso e immutabile (la natura umana); per Kelsen, la «natura umana» è termine tremendamente, inaccettabilmente generico e polisemico e quello che è naturale per me può non esserlo per te, sicché svaporando questa (presunta) oggettività, la giustizia è né più né meno che una comunanza di soggettività; per lui cioè è giusto quel che in un certo momento una determinata comunità di soggetti considera tale. Ecco, la comunità. È qui che Kelsen, rientrando un po', arrotonda le punte del suo relativismo sulla lamina della sapienza sociologica: qui, quando mette in penitenza l'idea che pure gli fu cara in anni risalenti allorché la scelta tra il giusto e l'ingiusto, egli la commetteva alla discrezionalità e comunque all'espansione emotiva dell'individuo (dell'individuo singolo, intendiamo?). Ora no, non più: quando Kelsen dice – e lo dice nella sua ultima, bellissima, lezione universitaria – che «un sistema positivo di valori non è una creazione arbitraria di un individuo isolato» e che «ogni sistema di valori … e la stessa idea di giustizia, è un fenomeno sociale», quando Kelsen dice così, di fatto rivede al ribasso le sue precedenti acquisizioni. Nel senso che i valori rimangono, sì, sempre relativi; ma ora è la società che li seleziona, ed è la società – per il tramite della famiglia e della scuola – che li inietta nelle coscienze dei singoli plasmandoli e predisponendoli al bene (rette: a ciò che in un dato momento si considera bene). Con la conseguenza che forgiate così le personalità degli umani (specie degli umani-fanciulli), a un certo punto le norme della morale e i principi della giustizia, divengono per essi una specie di seconda natura, di fatti che non è abitudine discutere, precisamente come non si suole discutere il freddo della neve o il calore del sole. Agli occhi di un osservatore esterno lo statuto di quelle regole non cambia: relative erano e relative restano. Muta invece la prospettiva, diremo così, «interna», di chi cioè vivendo all'interno della collettività le sperimenta non come opinioni volatili e passeggere ma come credenze inconcusse e perentorie. Pensate quale labirintico intreccio di condizioni contrastanti: sapere, dall'esterno, che i nostri valori sono poco più che ipotesi senza fondamento e poi, dall'interno, trattarle con tutti i riguardi dovuti alle certezze. Labirintico e spaesante viluppo che, a volte, costringe la mente in una specie di mezz'ombra ambigua. A volte. Altre volte, però, lampeggia come per ricordarci che è precisamente questo il titolo di nobiltà della nostra condizione: «rendersi conto della validità relativa delle proprie convinzioni, eppure difenderle senza indietreggiare: ecco ciò che distingue un uomo civile da un barbaro» (Berlin).