Quodlibet riedita il testo di Franco Fortini che Jean-Marie Straub e Daniéle Huillet trasferirono sul grande schermo.
I cani del Sinai sono quelli che si “affrettano a correre in aiuto dei vincitori” e non vivono affatto sul Sinai. L’Italia, ad esempio, ne è attualmente infestata.
I cani del Sinai sono inoltre (e soprattutto), uno dei libri più belli e crudeli di Franco Fortini e un terribile j’accuse di uno dei più raffinati protagonisti della cultura ebraica contro l’ottusa politica anti-araba delle destre israeline. A partire da una basilare affermazione, dalla pietra angolare che va posta all’inizio di qualsiasi discussione a proposito della situazione medio-orientale e cioè, per dirla con la chiarezza delle parole fortiniane, che “chiamare antisemita la diapprovazione della politica israeliana è pura soperhieria”. Per poi aggiungere, poco più avanti: “Naturalmente non esiste, se si vuole evitare il ridicolo, nessuna possibilità di confondere la nozione di ‘ebreo’ con quella di ‘Israele’. Anzi la grande sfera culturale del giudaismo, il suo suono storico e allegorico si sono , credo, definitavamente separati da tutta la realtà, positiva e negativa dello stato israeliano e della sua vicenda”.
Era il 1967, quando Fortini scriveva queste righe, appena dopo la cosiddetta guerra dei sei giorni, ed è sconcertante – e voglio subito sottolinearlo – l’espresione di assoluta urgenza e contemporaneità che continuano a sprigionare le pagine del testo che Quodlibet riedita, arricchendolo delle note composte dall’autore per la riduzione cinematografica che ne diedero, nel 1976, Daniélle Hiullet e Jean-Marie Straub nell’indimenticabile Fortini/Cani e di una lettera che il poeta fiorentino scrisse agli “ebrei italiani” nel 1989 e che fu pubblicata sul Manifesto.
Intreccio raffinato di analisi interiore e polemica politica dal calor bianco, I cani del Sinai è una salutare doccia fredda che ci invita di nuovo ad approfondire con spietatezza i problemi, a guardare la luna e non il dito che ce la indica, è un elettroshock che stimola tutti noi – a sinistra in primis – a riacquistare il coraggio della critica e, ovviamente, quello dell’autocritica, nello sforzo di trovare le ragioni giuste “ragioni comuniste, non soltanto proarabe”.
Questo per Fortini significa, prima di tutto, mettere in atto una ricerca accanita del senso più intimo della Shoa, e la risposta che egli trova è inequivocabile: “Quel senso era: di aver riassunto nella posizione di vittime e in una incredibile concentrazione di tempo e ferocia, tutte le forme di dominio e violenza dell’uomo sull’uomo proprie dell’età moderna; di aver riprodotto ad uso di una sola generazione umana quel che diluito nel tempo, nello spazio, nella abitudine e nella sensibiltà, le classi subalterne europee e le popolazioni colonizzate avevano subito come diniego di esistenza e di storia, come alienazione reificazione annichilimento”. Che pensare, dunque, di chi ha “senza disgusto tollerato di ascoltare o di leggere dette e scritte per gli arabi buona parte delle argomentazioni che trnt’anni or sono la stampa italiana formulava contro lo Jude, e le ha rese, se possibile, anche più ripugnanti con uno smalto pedagogico-democratico”? E soprattutto che pensarne oggi, mentre il popolo di Dachau ed Auschwitz costruisce da sé muri altissimi per separarsi dall’altro?
Il giudizio di Fortini è tagliente, ed utilizza Sartre come fosse una clava: “Non mi interessa ciò che è stato fatto all’uomo, ma che cosa egli fa di quel che è stato fatto a lui”.
E se l’urgenza della riflessione è così bruciante e approfondita, allora capita, come ne I cani del Sinai, che le parole acquistino lo spessore stupefacente e terribile della profezia, o del crudele, ma improcrasinabile smascheramento: “Quando dalle mani dei palestinesi le pietre cadessero e – come auspicano i “falchi” di Israele – fra provocazione e disperazione, i palestinesi avverari della politica di distensione dell’Olp, prendesero le armi, allora la strapotenza militare israeliana si dispiegherebbe tra gli applausi di una parte dell’opinione internazionale e il silenzio imponente di odio di un’altra parte, tanto più grande. Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri popoli fino a crederli incapaci di ricordare sempre (…). Abbiano il coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte col sangue dei palestinesi, sperando che nella notte l’angelo non lo riconosca; o invece trovino la forza di rifiutare complicità a chi quotidianamente ne bagna la terra, che contro di lui grida. Né smentiscano a sé stessi, come fanno, parificando le stragi del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e disciplinato. I loro figli sapranno e giudicheranno”. Sono righe del 1989, ormai più di un decennio fa, e sono firmate Franco Lattes Fortini.
Ed è stupefacente, poi, come ne I cani del Sinai l’nalisi geopolitica sappia fondersi con la memoria più intima, con lo scavo ostinato delle proprie radici, quasi anatomia spietata, a cuore aperto: “Voglio capire che cosa mi dà oggi diritto ad abbandonare l’ultimo resto, l’ultima memoria attiva e di ebraismo e a un tempo, quella spoglia, di assumerla come si assumono i lineamenti del proprio padre invecchiando”.
Ma la riflessione fortiniana ha spunti acutissimi anche a proposito dei modi e dei media grazie ai quali la tragedia israelo-palestinese veniva “notiziata”, individuandone con assoluta lucidità caratteristiche che ognuno di noi riconosce immediatamente come ormai facenti parte della nostra quotidianità: il moto dell’opinione manipolata m’ha fato capire fino a che punto siamo stati ridotti ad usare gli eventi mondiali con la stessa disperazione puerile che esercitiamo sui “prodotti”: a consumarli. (…) Tutto questo vuole persuderci di una sola cosa: “non esiste nessuna prospettiva, non c’è nessuna scala di precedenza. Tu devi ora partecipare di questa passione fittizia come hai già fatto con altre passioni apparenti. Non devi avere iltempo di sostare. Devi prepararti a dimenticare tutto e presto”.
Per poi chiosare a proposito dell’infernale jamming informativo in cui guerre, dolori, tragedie si alternano in un folle balletto, mediante il quale l’apparenza assoluta dà il colpo di grazia al corpo ferito della realtà: “si parla del Vietnam (…) come dei crimini nazisti, di questi come della guerra israeliana come d’una carestia in India. Al fondo c’è una sola dura feroce notizia: ‘Voi non siete dove accade quel che decide del vostro destino. Voi non avete destino. Voi non avete e non siete. In cambio della realtà v’è stata data un’apparenza perfetta, una vita ben imitata. Così ben distratti dalla vostra morte da godere di una sorta di immortalità. La recitazione della vita non avrà mai fine, felici’”. I “servizi televisivi” sono “un’arma totale”, brandita in nome di una presupposta – ipocrita e devastante – “obiettività”; “Sono obiettivo” vuol dire che la scelta è stata fatta prima, dietro le quinte. Una scelta su cui si è a tal segno tutti d’accordo che non c’è nemmeno bisogno di parlarne. Ieri come oggi.
L’arroganza del potere non cambia e a noi, ieri come oggi, in Italia quanto in Palestina ed Israele, tocca essere “astuti come colombe” e non dimenticare, lo sottolinea Fortini stesso, che “come è stato detto, ‘la tentezione del bene è irresistibile’ e quanto più il destino sembra distrutto tanto più comincia ad assomigliare a una libertà”.
E dunque, oggi come ieri, vale l’invito che egli lancia a tutti gli ebrei, perché parlino e si oppongano all’ottusità di una politica che conosce solo la logica delle armi, perché “se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli (…) dei palestinesi. parlino dunque”. Oggi come ieri. Oggi più di ieri.