Apparso per la prima volta nel 1981 per Milano Libri Edizioni, e finalmente ripubblicato da Quodlibet con la copertina originale di Altan e recuperando alcuni pezzi non inclusi nell'edizione di quasi 35 anni fa, Vite vere compresa la mia di Beppe Viola raccoglie quanto il «giornalista e umorista» milanese pubblicò su Linus a partire dal 1977 (nella sua introduzione Stefano Bartezzaghi avverte che le due qualifiche – giornalista, umorista – sono comunque inesatte, essendo la figura di Viola incontenibile in una definizione rigida). In Vite vere ci sono descrizioni lunari, per esempio quelle dei sodali convenuti nel salotto di Renato Pozzetto per progettare un film: «Jannacci Vincenzo, l'unico del clan che guarda la Tv dalla mattina alla sera e quindi in grado di esprimere idee. Cochi Ponzoni, ingegno prensile, ma dispersivo per via delle scarpe», e poi lo stesso Beppe Viola, «Buono a nulla, ma capace di tutto». E c'è il calcio raccontato come un miscuglio di sport e politica («Almirante vittima delle brigate rosso-granata del Torino preme per un rilancio del Fronte della Juventus»). C'è San Siro – «luogo di esasperato romanticismo dalle 14.30 alle 16.15 di ogni domenica» – e compare anche un'indomabile insofferenza nei confronti dei tennisti di successo («Li odio tutti dal profondo del cuore. Giovani, magri, ricchi, fosforescenti»). E poi c'è la Rai, dove Viola stabilì quello che in «Lettera al direttore» descrive come «il primato mondiale di mancata carriera», e c'è Milano («I giardinetti di viale Argonne servono a tenere insieme la nebbia fino all'alba e anche più in là»), o meglio quel «milanesco» che, lo segnala Bartezzaghi, è una lingua furba, furbesca, una versione del gergo della «ligéra» che all'autore di Quelli che... – a oggi il miglior catalogo del qualunquismo nazionale – tornava utile per dare forma ancora ad altre fantasticherie. E il diario di un'immaginazione al lavoro, un'antologia di digressioni visionarie, di distrazioni, di improvvisi détournement del senso; la cronaca lunare di uno sguardo sulle cose che, se sapeva scuotere una frase solo tramite un avverbio («Mi hanno rubato l'automobile, modestamente»), era in grado di tenere, in particolare nei suoi stessi autoritratti, disincanto e tenerezza.