Recensioni / Nel medioevo di Luigi Malerba, una farsa triviale

Quando scrisse Il pataffio, pubblicato per la prima volta nel 1978 e oggi finalmente ristampato da Quodlibet, Luigi Malerba aveva già alle spalle una lunga frequentazione del Medio Evo: dal film Donne e soldati del '55 che Monicelli citò come fonte lontana dell'Armata Brancaleone alle Storie dell'anno Mille (scritte insieme a Tonino Guerra). Il titolo veniva da un antico e strampalato testo trecentesco di recente attribuito a Franco Sacchetti. Per Malerba Pataffio (che vuoi dire anche epitaffio) è un bel titolo, sonoro ed oscuro, per una farsaccia scritta in un impasto di italiano corrotto con larghi innesti dialettali e di latino goliardico, che ha per protagonisti nobili spiantati, contadini furbissimi e sfruttati, frati intriganti ma soprattutto la Fame che affligge un po' tutti e che fa scambiare una cucina ben provvista per il Paradiso. Il marconte Berlocchio di Cagalanza muove con il suo miserabile seguito e l'immensa moglie Bernarda verso il feudo di Tripalle a lui destinato, ma comincia subito male: scambia Castel Rebello per il suo castello, viene respinto e quando, chiarito l'equivoco, chiede ospitalità si sente rispondere: «Ve dico cor cazzo che ve famo entra! Er prence nostro me dice de responne cusì, cor cazzo, e si insistete m'ha detto de dirve anco vaffancù!». Il pataffio è un romanzo allegramente violento, pieno di invenzioni e soprattutto di invettive. Cancherum ve accipiat tutti quanti...